Il Sole, fonte di luce ed energia che permette – fra le altre cose – la vita sulla Terra, rilascia anche un flusso continuo di particelle cariche, il vento solare. Come la luce, anche queste particelle si propagano attraverso il Sistema solare, dove interagiscono con il campo magnetico di pianeti come il nostro e, quando l’attività solare è particolarmente intensa, regalano lo spettacolo delle aurore colorando il cielo delle regioni prossime ai poli (e in casi eccezionali anche di quelle meno prossime, come accaduto poche settimane fa proprio in Italia). Se le aurore sono la manifestazione più appariscente e affascinante dell’interazione tra il vento solare e la Terra, non sono certo l’unica: le tempeste geomagnetiche possono avere un forte impatto sulla tecnologia spaziale, sulle reti elettriche e i sistemi di volo. È anche per questo, oltre agli interessi più squisitamente scientifici, che da decenni ricercatrici e ricercatori cercano di comprendere a fondo il funzionamento di questo flusso di plasma che permea il Sistema solare, collegando intimamente il nostro pianeta alla sua stella.
Indagare sull’origine del vento solare è uno degli obiettivi di Solar Orbiter, sonda dell’Esa con partecipazione della Nasa lanciata nel 2020, che con i suoi strumenti è in grado sia di osservare il Sole da lontano sia di “sentire” direttamente gli effetti del plasma, misurandone le proprietà in situ. Ma c’è di più: come dimostra uno studio apparso oggi su Nature Astronomy, Solar Orbiter può mettere in relazione questi due tipi di dati diversi, tracciando gli effetti del vento solare registrati in prossimità della sonda fino alla regione del Sole da cui si è originato.
«È il primo studio che di fatto sfrutta a pieno le potenzialità della missione», spiega a Media Inaf Raffaella D’Amicis, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica a Roma, co-principal investigator del Solar Wind Analyzer (Swa) a bordo di Solar Orbiter e co-autrice del nuovo lavoro. «In genere le due comunità – quella in situ e quella di osservazioni da remoto – si concentrano solo sulle rispettive osservazioni. Questo lavoro invece mostra come sia possibile sfruttare la combinazione delle osservazioni da remoto e le misure in situ per la prima volta nell’eliosfera interna e studiare così il collegamento tra le regioni sorgenti e il vento solare misurato localmente, con particolare riferimento alle misure di composizione, fondamentali per studi di connettività».
Sembrerebbe banale combinare questi due set di dati, ma non lo è affatto. Gli strumenti di telerilevamento, infatti, mostrano il Sole come appare istantaneamente – o meglio, con qualche minuto di ritardo, a seconda della posizione della sonda e quindi del percorso che la luce solare deve percorrere per raggiungerla. Gli strumenti in situ, invece, rivelano lo stato del vento solare che è stato rilasciato dalla superficie solare alcuni giorni prima, poiché le particelle rilasciate dal Sole viaggiano con velocità variabili tra 250 e 800 km/s, e a volte anche più alte: velocità rispettabilissime, certamente, ma di molto inferiori rispetto a quella della luce (pari a 300mila km/s). Un “ritardo da star”, insomma. Un po’ come quando, durante un temporale, scorgiamo prima il bagliore di un fulmine e poi, solo dopo qualche secondo, ascoltiamo il fragore del tuono: il suono viaggia più lentamente della luce, e così l’informazione sonora ci raggiunge con un certo ritardo rispetto a quella luminosa.
Per mettere in relazione le osservazioni del Sole e le misure del vento solare, il team guidato da Stephanie Yardley della Northumbria University, nel Regno Unito, ha usato il Magnetic Connectivity Tool, un software online che calcola la propagazione del vento solare nello spazio interplanetario sulla base di osservazioni che monitorano continuamente la superficie del Sole con sei telescopi solari sparsi in tutto il mondo. Questo software, usato generalmente per fare previsioni di space weather, è stato utilizzato in questo caso al contrario, ovvero per stimare la regione sorgente sulla superficie del Sole da dove ha avuto origine il vento solare osservato in situ da Solar Orbiter.
Il vento solare, dicevamo, si propaga a diverse centinaia di chilometri al secondo. Ma a voler essere più precisi, si possono distinguere due regimi di velocità. C’è quello “veloce”, che supera i 500 km/s e proviene da configurazioni magnetiche note (come buchi coronali che incanalano il vento solare nello spazio). E poi c’è quello “lento”, che viaggia sotto i 500 km/s, la cui origine rimane tuttora misteriosa, anche se si sospetta possa aver a che fare con le “regioni attive” del Sole, dove compaiono le macchie solari.
L’esperimento è stato condotto sui dati raccolti da Solar Orbiter nei primi nove giorni di marzo del 2022, a circa 75 milioni di chilometri dal Sole (metà della distanza media Terra-Sole). In questo periodo, la sonda ha attraversato regioni di vento solare sia veloce che lento, che risultano connesse rispettivamente al bordo di un buco coronale e a un complesso di macchie solari sulla superficie del Sole. Così è stato possibile studiare come la velocità e le proprietà del plasma cambiano a seconda della loro origine. «Solar Orbiter ha sorvolato il buco coronale e la regione attiva, e abbiamo visto flussi di vento solare veloce, seguiti da quello lento. Abbiamo notato molta complessità che siamo riusciti a collegare alle regioni di origine», commenta Stephanie Yardley.
«In particolare, in questo studio, si mostra come la variabilità del vento solare osservata in situ da Solar Orbiter nei primi giorni di marzo 2022 sia dovuta a cambiamenti spazio-temporali nella connettività magnetica alla sorgente», aggiunge D’Amicis. «Infatti, i cosiddetti ‘footprint’ del campo magnetico connessi alla sonda si muovono dai bordi di un buco coronale verso una regione attiva (AR12961) e ne attraversano un’altra (AR12957)».
Pur non essendo tecnicamente una missione dedicata allo space weather, Solar Orbiter offre un supporto importante anche per la meteorologia spaziale. «In primo luogo, permette di monitorare il Sole anche quando il satellite si trova dietro il lembo (cioè nella parte nascosta) a seconda dell’orbita del satellite», sottolinea D’Amicis. «È quello che è successo dopo la “grande aurora di maggio”, quando la regione attiva che ha causato l’aurora è stata interessata da un grande brillamento osservato da Solar Orbiter quando non era più rivolta verso la Terra. Oppure è stato suggerito che Solar Orbiter potrebbe essere usato, quando si trova lungo la congiungente Terra-Sole, come monitor per previsioni in tempo reale di space weather, in combinazione con altri satelliti, per eventi transienti come espulsioni di massa coronale che potrebbero causare disturbi geomagnetici».
Fonte: Media INAF