La contesissima corsa alla scoperta del buco nero più vicino alla Terra ha oggi un nuovo primatista: un buco nero di massa stellare che orbita attorno a una stella simile al Sole e distante, da noi, circa 1600 anni luce. Una scoperta priva di ambiguità – per caratteristiche orbitali osservate e derivate – asseriscono gli autori di un articolo appena uscito sul Monthy Notices of the Royal Astronomical Society.
Cominciamo con alcuni dettagli sulla scoperta. Il buco nero in questione si chiama Gaia BH1, e fa parte di un sistema doppio che è stato inizialmente osservato con il telescopio spaziale Gaia. In seguito, gli autori del manoscritto, che hanno notato delle caratteristiche promettenti nel sistema, l’hanno riosservato con il telescopio Gemini North alle Hawaii. L’oggetto, che hanno classificato come buco nero quiescente, è circa 10 volte più massiccio del Sole e si trova a 1600 anni luce di distanza nella costellazione dell’Ofiuco. La nuova scoperta è stata possibile grazie alle osservazioni spettroscopiche del moto della compagna del buco nero, una stella simile al Sole che orbita intorno al buco nero a una distanza pari a quella a cui il nostro pianeta orbita intorno alla sua stella.
Il buco nero sarebbe – secondo quanto riportano gli autori – tre volte più vicino alla Terra del precedente detentore del record, una binaria a raggi X nella costellazione di Monoceros. A differenza di Gaia BH1 però, quest’ultimo fa parte della categoria dei buchi neri stellari “attivi”, gli unici di massa stellare confermati finora, più semplici da scoprire perché emettono radiazione energetica nei raggi X mentre consumano materiale dalla stella compagna.
Non è la prima volta, però, che assistiamo a un simile annuncio: circa due anni fa l’Eso aveva emesso un comunicato stampa che rivendicava la scoperta del buco nero stellare più vicino (HR 6819) alla Terra grazie al suo spettrografo Feros sul telescopio da 2,2 metri dell’Mpg/Eso a La Silla. Il buco nero quiescente faceva parte di un sistema triplo visibile a occhio nudo dalla Terra, e distante appena mille anni luce.
«Nel 2020 ho scritto un articolo che dimostra che HR 6819 non è un buco nero», dice a Media Inaf Kareem El-Badry, astrofisico presso il Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian e il Max Planck Institute for Astronomy, e primo autore dell’articolo che descrive la scoperta di Gaia BH1. «Un paio di altri articoli hanno riscontrato la stessa cosa in seguito, tra cui il più recente quest’anno, che include anche l’autore dell’articolo iniziale che dichiarava la scoperta. Gli ultimi anni sono stati un duro banco di prova per chi annunciava scoperte sui buchi neri più vicini: l’anno scorso c’è stato un altro contendente, “l’Unicorno“, che abbiamo dimostrato, ancora una volta, essere una binaria stellare interagente».
Nonostante la dinamica del sistema Gaia BH1 non ammetta nessun’altra spiegazione fisica se non la presenza di un buco nero, le teorie che descrivono l’evoluzione dei sistemi binari non sono in grado di riprodurre la nascita di una simile configurazione. In particolare, la stella progenitrice che si è poi trasformata nel buco nero doveva essere almeno 20 volte più massiccia del Sole, il che significa che avrebbe vissuto solo pochi milioni di anni. Se le due stelle si fossero formate nello stesso momento, questa stella massiccia si sarebbe trasformata rapidamente in una supergigante, gonfiandosi e inghiottendo la compagna prima che questa avesse il tempo di diventare una vera e propria stella di sequenza principale che brucia idrogeno, come il Sole. Non è affatto chiaro, quindi, come la stella possa essere sopravvissuta a questo episodio, e come sia diventata la stella normale che osserviamo oggi.
«È interessante che questo sistema non si adatti facilmente ai modelli standard di evoluzione binaria», commenta El-Badry. «Pone molti interrogativi su come si sia formato questo sistema binario e su quanti buchi neri quiescenti ci siano là fuori».
Fonte: Media INAF