Per la picture of the week dell’ultima settimana di febbraio l’Esa ha scelto JO201, un nome la cui prima lettera definisce la particolarità dell’oggetto che vedete qui a fianco (cliccare per ingrandire): una galassia Jellyfish, medusa in italiano.
Vengono chiamate così quelle galassie a disco che mostrano dei lunghi filamenti di gas e stelle giovani. Succede quando, per qualche ragione e per un periodo definito della loro vita, queste galassie a disco vengono catturate da un ammasso di galassie e vengono osservate proprio nel momento in cui stanno cadendo al suo interno. In questa fase, il plasma caldo che permea l’ambiente dell’ammasso di galassie interagisce con il loro gas (quello che si trova all’interno del disco e che viene impiegato per formare nuove stelle) e lo trattiene mentre la galassia continua ad attraversare lo spazio. Questo fenomeno si chiama, in gergo, ram pressure stripping, e può essere talmente intenso da superare la forza di gravità che tiene il gas legato alla galassia, portando alla formazione di questi tentacoli di gas che si dipartono dal corpo della galassia, la testa della medusa. Tornando ora alla galassia protagonista dell’immagine della settimana, fa parte di un programma osservativo cominciato nel 2016 con lo strumento Muse al Very Large Telescope (Vlt) e che porta il nome di Gasp (Gas stripping phenomena in galaxies with Muse, referente scientifico Bianca Poggianti dell’Inaf di Padova). Qui, oltre ai dati raccolti con Muse c’è lo zampino di Hubble, che ha osservato sei galassie del vasto campione di Gasp in ultravioletto e con un filtro centrato su una riga dell’idrogeno ionizzato, entrambi indicatori principali del processo di formazione stellare in corso nelle code. Ma per sapere qualcosa di più sulla genesi di queste immagini, e soprattutto su ciò che hanno da raccontarci, Media Inaf ha intervistato Marco Gullieuszik, ricercatore astronomo dell’Inaf di Padova e autore dell’articolo in cui vengono presentate le galassie osservate con Hubble, e proposte dall’Esa.
Com’è nata la possibilità di pubblicare l’immagine di una delle vostre galassie medusa come picture of the week dell’Esa?
«Allora, l’idea è partita da me. Ho contattato Esa per proporre queste immagini perché penso siano molto belle e poi perché sono rare: ci sono poche osservazioni di galassie ram pressure stripped con Hubble, e Hubble rimane uno strumento unico e senza rivali per osservare alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto. Quindi, inizialmente ho contattato Esa perché speravo che potessero mettere mano anche loro a queste immagini. E, infatti, devo dire che il risultato che hanno ottenuto loro è migliore di quello che ho ottenuto io, e che è pubblicato nel paper».
E come hanno risposto?
«Devo dire che si sono mostrati da subito interessati e hanno accolto la mia proposta. Le osservazioni con Hubble sono state fatte fra ottobre 2020 e aprile 2021, e io li avevo contattati quasi subito. Poi c’era da fare l’analisi e scrivere l’articolo. E nel frattempo è stato lanciato il telescopio spaziale James Webb e sono arrivate le prime immagini, e giustamente loro sono stati sommersi. Alla fine, comunque, devo dire che la pubblicazione del mio articolo e quella delle immagini si sono coordinate perfettamente. E le immagini che vedete qui ora sono un loro prodotto, non c’è il mio intervento».
In che senso? Hanno rifatto tutto da capo partendo dai dati grezzi?
«No, ecco, credo di no. Sono quasi sicuro che abbiano scaricato i dati già ridotti e calibrati da me, e siano partiti da quelli per fare il loro mosaico sovrapponendo diversi filtri».
Qual è la differenza con quelle pubblicate nell’articolo, allora?
«Non conosco tutti i dettagli, ma la differenza principale è che hanno aggiunto alla sovrapposizione delle immagini in vari colori un filtro in più, quello in banda stretta centrato sulla riga dell’idrogeno ionizzato – mentre le mie immagini contengono solo i filtri a banda larga. È quello che consente di mettere in evidenza le regioni più rosse, che sono quelle in cui sta avvenendo la formazione di nuove stelle».
Con Hubble avete osservato sei galassie Jellyfish. Come mai è stata scelta questa?
«Direi che questa è la più bella delle sei, e anche quella che si presta meglio a produrre un’immagine di questo tipo. Anche perché dalla Terra la vediamo di faccia e ha dei tentacoli ben evidenti. Comunque, l’idea è che Esa pubblicherà anche le immagini di altre galassie, scelte fra quelle sei, nei prossimi mesi».
Quante galassie sono state osservate in totale nel programma Gasp e come mai avete scelto queste sei per Hubble?
«Gasp ha osservato 114 galassie in totale, che comprendono sia galassie che erano candidate Jellyfish, sia un campione di controllo che sapevamo non essere disturbato. Fra le prime, diverse hanno effettivamente mostrato la presenza di code di gas strippato (dall’inglese stripped, ndr). Il progetto è nato con le osservazioni dello spettrografo Muse al Vlt, che vede il gas ionizzato nelle code. Abbiamo selezionato, per il follow-up con Hubble, quelle che avevano le code più lunghe e quelle che avevano il maggior numero di regioni di formazione stellare nelle code. Perché una cosa che succede a queste galassie è che nelle code il gas comincia a collassare e a formare nuove stelle. Per questo vediamo l’idrogeno ionizzato, uno degli indicatori che lì ci sono stelle giovani. Già con i dati Muse avevamo indicazioni riguardo queste regioni di formazione stellare che chiamiamo, in inglese, clump, che appaiono come macchie molto compatte e brillanti nelle code. Con Hubble volevamo aumentare la risoluzione delle osservazioni nelle code per vedere meglio i clump, guardando sia l’idrogeno ionizzato che l’ultravioletto, proprio per concentrarci sulla formazione stellare. Quindi, abbiamo selezionato dal campione le galassie con il maggior numero di regioni di formazione stellare nelle code».
Quindi la ragione per usare Hubble era aumentare la risoluzione?
«Assolutamente sì. Aumentare la risoluzione spaziale nella riga H-alpha dell’idrogeno ionizzato, e avere dati ad alta risoluzione in Uv. Hubble è ancora unico e senza rivali in questo tipo di osservazioni».
E avete ottenuto il risultato che speravate?
«Lo scopo principale di questo lavoro era studiare la formazione stellare nelle code ad alta risoluzione. La domanda era: che cosa ionizza i gas? Muse ci aveva avvertito che poteva esserci formazione stellare lì. Ma Muse permette, alla distanza delle galassie che abbiamo osservato, di avere una risoluzione di 1 kiloparsec (kpc), una scala molto grande per studiare le regioni di formazione stellare. Le più grandi fra queste possono arrivare a 1 kpc, certo, ma la maggior parte ha dimensione minore. Quindi, ecco perché Hubble: volevamo sapere su che scale avviene la formazione stellare. Hubble ci fornisce due buoni traccianti riguardo la formazione di nuove stelle, la riga H-alpha e l’Uv appunto, e può raggiungere una risoluzione dell’ordine dei 100 parsec, dieci volte migliore. In verità ci siamo accorti che ci sono regioni anche più piccole di così».
Ve lo aspettavate?
«Qualche sospetto ci era venuto ma la conferma è stata una sorpresa. Stiamo indagando questo aspetto. La settimana scorsa abbiamo pubblicato la versione preliminare di un secondo articolo in fase di revisione che riporta i primi risultati di uno studio più quantitativo delle regioni di formazione stellare nelle code, coordinato da Eric Giunchi, un dottorando dell’università di Padova che sta facendo una tesi basata su questi dati Hubble. Abbiamo trovato che le relazioni di scala che legano la dimensione e la luminosità delle singole regioni di formazione stellare non seguono le relazioni di scala che troviamo nei dischi delle galassie normali. In pratica, a parità di dimensione di una regione di formazione stellare, nelle code la luminosità è più alta, sono più brillanti».
E questo ha a che fare con qualche particolarità nel meccanismo di formazione stellare?
«Ancora non possiamo dire nulla di conclusivo, però quello che vediamo è che le regioni di formazione stellare stanno a metà fra le galassie normali e le galassie starburst (che hanno una formazione stellare molto intensa). Quello che sappiamo, poi, è che anche i dischi delle galassie sottoposte a ram pressure stripping hanno una formazione stellare maggiore rispetto ai dischi delle galassie normali, imperturbate. Nelle code però non abbiamo ancora sufficiente statistica. Dobbiamo capire come avviene, qui, la formazione di nuove stelle».
Perché sono così particolari le code?
«Sono ambienti molto peculiari in cui formare stelle perché sono gli unici ambienti in cui questo processo avviene in assenza di un disco. Cioè, in un ambiente direttamente esposto al gas caldo dell’ammasso e alle sue turbolenze, e inserito in un potenziale gravitazionale completamente diverso da quello usuale».
Come a dire che si formano in un ambiente non protetto…
«Esatto. E questo è molto interessante perché condizioni simili, in cui le stelle si formano in assenza di un disco, sono quelle in cui si formavano le stelle nelle galassie primordiali, che non avevano un disco ed erano un ambiente dominato dalla turbolenza. Per altri aspetti sono completamente diverse, però hanno anche dei punti in comune. Ovviamente siamo solo all’inizio, perché abbiamo poche galassie e ci manca ancora la statistica, ma questa è una strada interessante da percorrere».
Che fine fanno le stelle che si formano nelle code?
«Questa è un’ottima domanda. È una delle grandi domande che avevamo scritto nella proposta osservativa per Hubble, nonché la prima cosa che ci viene chiesta ai congressi. Ci si chiede, infatti, non solo dove finiscano le stelle, ma anche il gas e in generale tutto il materiale che viene strappato dalla galassia. La risposta è che ancora non lo sappiamo, però grazie ai dati che abbiamo avuto con Hubble possiamo cominciare a dare qualche risposta».
In che modo?
«Per capire se questi clumps di materiale, gas e stelle che si formano possono sopravvivere nell’ambiente circostante è necessario conoscerne le dimensioni, conoscere lo stato di turbolenza del mezzo e del sistema stellare che si forma, e la sua massa. Dobbiamo capire se il sistema che si forma è cinematicamente stabile, se è gravitazionalmente legato e se può resistere come sistema legato. Alcune delle regioni di formazione stellare che osserviamo sono davvero lontane dal corpo della galassia, ed è quindi verosimile che siano ormai slegate gravitazionalmente dalla galassia stessa, e che si perderanno nell’ammasso. Sono estremamente compatti e quindi l’indicazione è che possano essere gravitazionalmente legati, ma questo dobbiamo dimostrarlo calcolando innanzitutto con precisione la massa a partire dai dati di Hubble».
Quindi, quale può essere il loro destino?
«Una delle ipotesi che facciamo è che questi clumps evolvano in alcuni oggetti peculiari che vengono osservati negli ammassi di galassie e dei quali, tutt’ora, non si conosce l’origine. Parlo ad esempio delle galassie ultra-diffuse o ultra-compatte, una classe di oggetti che sovrabbonda nei cluster. Provare la “parentela” fra i due, comunque, non è semplice».
Quali sono i prossimi passi?
«Stiamo per pubblicare l’articolo in cui studiamo questi star forming clumps nelle code, ne calcoliamo dimensioni e luminosità. Un altro studio in corso è il calcolo della massa e dell’età (e con essa della storia di formazione stellare) di queste regioni, per confrontare quello che succede nelle code con quello che succede nel disco. Abbiamo ancora tantissime domande a cui vogliamo rispondere».
Fonte: Media INAF