Esplodevano come popcorn in pentola, le supernove nell’universo primordiale. Almeno secondo quanto sta osservando Webb, che finora ne ha contate un numero dieci volte superiore a quello precedentemente conosciuto. Questi fuochi d’artificio cosmici apparirebbero confrontando immagini scattate a distanza di un anno, visibili alle lunghezze infrarosse grazie al fenomeno del redshift cosmologico. I risultati sono stati presentati in una conferenza stampa durante il 244° meeting dell’American Astronomical Society a Madison, nel Wisconsin.
Le immagini poste a confronto sono state raccolte nell’ambito del programma Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades), che sfrutta il fatto che la luce emessa dall’esplosione di una supernova nell’universo primordiale viene “stirata” a lunghezze d’onda infrarosse – quelle viste da Webb – a causa dell’espansione dell’Universo, un fenomeno noto come redshift cosmologico.
Prima del lancio di Webb, solo una manciata di supernove era stata trovata sopra redshift 2, una distanza che corrisponde a un’età dell’universo di appena 3,3 miliardi di anni. Ora, invece, il campione Jades contiene molte supernove che sono esplose addirittura quando l’universo aveva meno di 2 miliardi di anni. La più vecchia si trova a redshift 3.6: la sua stella progenitrice è esplosa quando l’universo aveva solo 1,8 miliardi di anni. In tutto, gli oggetti identificati dal team di Jades sono 80, e li vedete cerchiati in verde nell’immagine sulla destra. Sono tutti oggetti “transienti”, che hanno cioè mutato la propria luminosità nel tempo, e molti di questi a causa dell’esplosione di una stella in supernova.
«Il fatto che il telescopio spaziale Webb stia trovando un gran numero di supernove era atteso», commenta Andrea Pastorello, ricercatore dell’Inaf di Padova esperto di supernove e non coinvolto nel programma Jades. «L’efficienza dello strumento permette di arrivare a redshift estremamente elevati e quindi campiona un volume significativo di universo. L’effetto del redshift sposta l’emissione delle supernove dal dominio ottico a quello infrarosso, rendendo questo telescopio ideale per la loro scoperta».
Di supernove ce n’è di vari tipi, e quelle più interessanti dal punto di vista cosmologico sono le supernove di tipo Ia. Si tratta di oggetti speciali, perché durante l’esplosione raggiungono una luminosità di picco sempre uguale. Si dice, in gergo, che sono candele standard: questa loro caratteristica viene infatti utilizzata per misurare la distanza delle galassie lontane in cui esplodono e per calcolare il tasso di espansione dell’universo.
Webb ha identificato almeno una supernova di Tipo Ia a un redshift di 2,9: significa che la luce di questa esplosione ha iniziato a viaggiare verso di noi 11,5 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 2,3 miliardi di anni. Il precedente record di distanza per una supernova di tipo Ia confermata spettroscopicamente era un redshift di 1,95, quando l’universo aveva 3,4 miliardi di anni.
Con queste nuove esplosioni per le mani, la domanda è: la loro luminosità era diversa così lontano nel tempo e nello spazio, quando l’universo era più giovane? Se la risposta fosse sì, e la loro luminosità variasse con il redshift, significherebbe che non sarebbero dei marcatori affidabili per misurare le distanze, e dunque il tasso di espansione dell’universo. Ebbene, l’analisi di questa supernova di tipo Ia trovata a redshift 2,9 non sembra indicare alcuna variazione di luminosità. Sono necessari ulteriori dati, ma per ora le teorie basate su queste sorgenti esplosive sono salve.
«Scoprire supernove primordiali e poterle osservare anche in spettroscopia ci permette di capire come variano le proprietà dei diversi tipi di supernove con il redshift», spiuga Pastorello. «Questo ha ovvie conseguenze nel loro uso come indicatori di distanza. Inoltre, determinare come varia la composizione del materiale eiettato dalle supernove distanti rispetto a quelle “locali” è utile per comprendere come la composizione chimica dei progenitori (ovvero delle stelle da cui provengono) ne determini il cammino evolutivo. Questo aiuta la nostra comprensione dei meccanismi che regolano i vari tipi di esplosioni stellari».
Fonte: Media INAF