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Se tutti i quasar si somigliassero, nello spettro

Si pensa che la stragrande maggioranza delle galassie abbia un buco nero supermassiccio al centro. In alcune di queste, questo esercita la sua influenza gravitazionale in silenzio e senza dare nell’occhio, come un burattinaio che muove le stelle che lo circondano; in altre, invece, la sua presenza è tutt’altro che discreta e si manifesta con energetici getti di materiale che provengono da un disco di accrescimento che lo alimenta e ne causa quest’emissione violenta.

Le galassie che ospitano questi buchi neri si definiscono attive, o Agn (acronimo di active galactic nucleinuclei galattici attivi). Tra queste, le più luminose sono i quasar. Per spiegare il meccanismo di emissione della radiazione dal nucleo attivo, e tutti i processi che scaturiscono dall’accrescimento di materiale del disco di accrescimento, gli astrofisici si affidano da circa 30 anni a un modello che hanno chiamato unificato, o standard. Tuttavia, un recente articolo uscito su Nature Astronomy mette in crisi alcuni fenomeni previsti dal modello standard proponendo una visione alternativa rispetto alle caratteristiche di questi oggetti.

Le galassie attive, dicevamo, hanno proprietà osservative diverse rispetto alle galassie normali. L’accrescimento di materiale dal disco al buco nero centrale produce enormi quantità di radiazioni, dalle lunghezze d’onda ottiche a quelle ultraviolette. L’emissione ultravioletta (Uv) estrema, in particolare, proviene dalle regioni più energetiche del disco ed è la protagonista di una delle caratteristiche fondamentali del modello standard. Secondo la teoria, infatti, la distribuzione di energia osservata nell’Uv varierebbe a seconda della luminosità del quasar e sarebbe anche coinvolta nella produzione di righe di emissione molto larghe nello spettro.

«Secondo gli autori di questo articolo la dipendenza dalla luminosità dello spettro Uv dei quasar è dovuta semplicemente a un effetto di selezione osservativa, ovvero al fatto che è più semplice osservare l’emissione Uv dei quasar più luminosi. Se si corregge questa cosa, invece, tutti i quasar tornano uguali», spiega Angela Bongiorno, ricercatrice all’Inaf di Roma non coinvolta nello studio. «La conseguenza più importante di questa tesi è il fatto che dobbiamo ripensare al modello standard che spiega la fisica di questi oggetti, e secondo il quale l’emissione Uv dovrebbe dipendere dalla luminosità».

Inoltre, sempre secondo il modello standard, l’emissione Uv del disco di accrescimento ionizza le righe larghe dello spettro, e se l’emissione cambia al variare della luminosità del quasar, allora anche le righe cambiano con questa. La correlazione (osservata) tra larghezza delle righe e luminosità del quasar è quello che gli astronomi chiamano effetto Baldwin. Va da sé, quindi, che una diretta conseguenza della tesi riportata in questo studio – ossia che l’emissione del disco non cambia al variare della luminosità – è che occorre trovare un’altra spiegazione all’effetto Baldwin.

Quello standard, comunque, non è l’unico modello proposto per spiegare la fisica di questi oggetti. Uno studio del 2014, ad esempio, propone che il disco possa raggiungere una temperatura massima oltre la quale si generano forti venti che accrescono nubi di materiale attorno al disco e provocano, a cascata, tutti gli altri effetti osservativi noti.

«Il risultato di questo articolo è sicuramente molto interessante perché mette in discussione il modello standard del disco di accrescimento che prevede che l’emissione ultravioletta dei quasar vari con la luminosità, cosa che spiega anche il Baldwin effect», ripete infatti Angela Bongiorno, che conclude: «Questo risultato va però confermato con lo studio di campioni più grandi di quasar osservati in banda Uv e questo sarà possibile con i prossimi satelliti Uv come ad esempio Ultrasat».

 

Fonte: Media INAF

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