Elettroni e positroni con livelli di energia record: oltre i 10 TeV, vale a dire diecimila miliardi di elettronvolt. A intercettarli sono stati i cinque telescopi Cherenkov dell’osservatorio Hess, in Namibia. Ma qual è la loro origine? Quale acceleratore cosmico può mai averli spinti a energie così elevate? L’ipotesi presentata questa settimana su Physical Review Letters è che possa essere una pulsar. Una pulsar a noi molto vicina: appena qualche migliaio di anni luce, dicono gli autori dello studio.
Gli elettroni – così come la loro controparte d’antimateria, i positroni – sono particelle elettricamente cariche. Raggi cosmici, quando giungono fino a noi dallo spazio. E in quanto cariche sono particelle sensibili ai campi magnetici. Ciò implica che non corrono in linea retta dalla sorgente che le accelera fino ai rivelatori che le intercettano – come fanno i raggi gamma, per esempio, così come tutti gli altri fotoni, deviati soltanto dalle deformazioni dello spaziotempo – bensì seguendo i percorsi tortuosi imposti, appunto, dai campi magnetici che si trovano ad attraversare. Questo rende difficilissimo, se non impossibile, tracciarne a ritroso la traiettoria per capire da dove provengano.
Non solo: interagendo con i campi magnetici e con i fotoni che incontrano lungo la strada, i raggi cosmici perdono via via energia. E la perdono in modo particolarmente significativo proprio gli elettroni e i positroni più energetici, superiori al TeV. Ecco allora che se uno strumento rileva particelle cosmiche d’energia così elevata, come quelle viste dai cinque telescopi di Hess, con buona probabilità si tratta di elettroni e positroni che non hanno percorso distanze molto grandi. Dunque ci dev’essere qualche acceleratore naturale di particelle molto potente e molto vicino a noi.
La nuova analisi presentata dagli scienziati della collaborazione Hess potrebbe aver per la prima volta individuato la provenienza di queste particelle cosmiche. Questo grazie anzitutto all’eccezionale qualità dello spettro – vale a dire, della distribuzione energetica degli elettroni e dei positroni – ottenuto nel corso di oltre dieci anni d’osservazioni. Lo potete vedere nel grafico qui a fianco: copre un ampio intervallo di energie, fino a decine di TeV, e mostra due caratteristiche che i ricercatori hanno trovato particolarmente rivelatrici: l’anomalo piegamento attorno a 1 TeV, indicato dalla freccia verde, e l’assenza di “gobbe” o “avvallamenti” nei segmenti di curva prima e dopo questa piega.
«La nostra misura non solo fornisce dati in un intervallo di energia cruciale e precedentemente inesplorato, con un impatto sulla nostra comprensione del vicinato locale, ma è anche probabile che rimanga un punto di riferimento per i prossimi anni», sottolinea Werner Hofmann del Max Planck Institute for Nuclear Physics di Heidelberg (Germania) riferendosi all’eccezionale qualità dei dati, le cui barre d’errore sono relativamente contenute.
«Si tratta di un risultato importante, in quanto possiamo concludere che gli elettroni misurati provengono molto probabilmente da pochissime sorgenti in prossimità del nostro Sistema solare, fino a un massimo di qualche migliaio di anni luce di distanza: sorgenti a distanze diverse attenuerebbero notevolmente questa piega», osserva Kathrin Egberts dell’Università di Potsdam.
Dunque qualcosa nel raggio di migliaia di anni luce, non di più. L’assenza di gobbe nella curva oltre 1 TeV, in particolare l’assenza di picchi attorno a 1.4 TeV, suggerisce che non si tratti di emissione dovuta all’annichilazione di particelle di materia oscura. Al tempo stesso, l’energia estremamente elevata esclude che l’origine dell’emissione possa risiedere in processi di tipo “termico” quali la fusione nucleare all’interno delle stelle. Andando per esclusione, non rimane dunque che ipotizzare la presenza di uno o più potentissimi acceleratori all’interno della nostra galassia, molto vicini a noi. Ecco che le principali indiziate diventano così le pulsar o i resti di supernove: l’onda d’urto magnetica prodotta dal vento di materia emesso da alcuni di questi oggetti avrebbe infatti tutte le carte in regola per spiegare l’eccezionale accelerazione impressa sulle particelle cariche.
Fonte: Media INAF