Nel 2020, si era aggiudicato 2 milioni 410mila secondi di osservazioni – un totale di quasi 700 ore, pari a circa 28 giorni nel corso di tre anni – con l’ambito telescopio spaziale dell’Esa Xmm-Newton per studiare un campione di una ventina di quasar, i nuclei galattici che risplendono per l’intensa attività dei buchi neri supermassicci al loro centro. E non un campione qualsiasi: include infatti i quasar più lontani tra quelli noti, spingendosi indietro nel tempo fino al primo miliardo d’anni di vita dell’universo, durante quella che gli astronomi chiamano l’epoca della reionizzazione. Parliamo di Luca Zappacosta, ricercatore presso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Roma e principal investigator di uno dei programmi di osservazione nei raggi X più estesi di sempre dedicati alla caratterizzazione dei primi quasar e alla ricerca della loro natura. Per saperne di più, l’abbiamo intervistato in occasione della pubblicazione, in un articolo appena uscito sulla rivista Astronomy & Astrophysics, dei risultati del primo anno di osservazioni.
Cosa avete scoperto?
«L’evidenza forse più significativa pubblicata finora che i primi quasar formatisi nell’universo mostrano differenze marcate nelle proprietà delle loro regioni centrali rispetto ai quasar osservati in epoche cosmiche meno remote. Il paper presenta osservazioni nei raggi X di qualità mai vista prima per un campione così esteso di sorgenti, il che è stato reso possibile dal Multi-Year Heritage Program di Xmm-Newton che stiamo portando a compimento».
Perché vi interessa confrontare i quasar di epoche così distanti nella storia dell’universo?
«Siamo partiti da una domanda: come è stato possibile formare questi buchi neri così massicci in meno di un miliardo di anni, cioè nel breve lasso di tempo che intercorre tra il Big Bang e l’epoca cosmica della reionizzazione, in cui sono stati osservati? Come per il famoso aneddoto del calabrone, che secondo le sue proprietà aerodinamiche non potrebbe volare ma essendo all’oscuro della cosa lo fa ugualmente, questi buchi neri per le nostre conoscenze di astrofisica non dovrebbero quasi esistere, ma “non sapendolo” esistono lo stesso e risplendono fieramente come quasar brillanti ancor prima che l’universo compisse il miliardo di anni di età. Due sono i casi: o si sono formati partendo da buchi neri iniziali (i cosiddetti “semi”) già molto massicci, o hanno avuto una storia di formazione estremamente veloce con altissimi tassi di accrescimento. Questa domanda racchiude in sé la nostra ignoranza sui processi di formazione dei buchi neri nell’universo primordiale e con essa anche la formazione delle galassie nella stessa epoca. Infatti ormai è chiaro che l’energia rilasciata dai buchi neri supermassicci al centro delle galassie ha una rilevante influenza nel processo evolutivo delle galassie che li ospitano. Capire la formazione dei buchi neri aiuta a capire la formazione delle prime strutture cosmiche, galassie e protoammassi di galassie inclusi».
Che cosa ha di speciale il campione di quasar che avete osservato?
«È il primo campione di quasar primordiali selezionato in maniera fisicamente ragionata. Ha lo scopo di indagare la natura di questi oggetti e quindi include specificatamente i quasar più difficili da formare. Questi sono i “titani” tra i buchi neri, cioè quelli alimentati da un buco nero supermassiccio che ha avuto la storia di formazione più veloce e che quindi ha inghiottito la maggior quantità possibile di materia per arrivare all’attuale massa che stiamo misurando. Essendo questi i titani tra i buchi neri supermassicci, il campione l’abbiamo chiamato Hyperion (uno dei Titani, gli antichi dei della mitologia greca) che è l’acronimo derivato dal nome esteso del progetto: Hyperluminous quasars at the Epoch of Reionization».
Perché, di tutto lo spettro elettromagnetico, osservare proprio nei raggi X?
«Il progetto Hyperion si propone di indagare a qualsiasi lunghezza d’onda le caratteristiche di questi oggetti. Tuttavia è grazie alla banda X che possiamo indagare la natura dei buchi neri che alimentano questi quasar. Infatti, i raggi X provengono proprio dalle regioni più vicine al buco nero in accrescimento (cioè da circa un centinaio di anni luce da esso) e possono darci informazioni “dirette” sulle modalità in cui il buco nero si sta ingrandendo. Il nostro programma Heritage di Xmm-Newton quindi è ideale per questo tipo di studio».
Che cosa è emerso dal primo anno di osservazioni?
«Abbiamo imparato che le proprietà delle regioni vicine al buco nero che accresce materia, in questi quasar, sono nettamente diverse da quelle di quasar simili ma presenti a epoche cosmiche più recenti. Questo implica che le caratteristiche delle regioni che provocano l’emissione in banda X, ovvero le regioni più interne del disco di materia in accrescimento attorno al buco nero e l’atmosfera di elettroni caldi (chiamata corona) che sovrasta queste regioni e trasforma i fotoni ultravioletti del disco di accrescimento nei raggi X, sono nettamente diverse da quelle dei normali quasar studiati finora. La diversità può essere ricollegata proprio alla storia di formazione del buco nero centrale in quanto il nostro campione seleziona esclusivamente gli oggetti con la storia di formazione del buco nero più estrema e veloce: i titani fra i primi quasar. Per questo, è possibile che l’emissione anomala nei raggi X (e le proprietà del disco di accrescimento e della corona di elettroni) dipenda proprio dalla storia di formazione di questi buchi neri, che finora è ancora poco conosciuta».
Che cosa vi aspettate dall’analisi dei prossimi dati?
«Sicuramente ci aspettiamo altre sorprese, anzi stiamo già lavorando a ulteriori risultati inaspettati e di grande interesse. Con questo programma stiamo facendo luce sulla formazione dei primi buchi neri supermassicci in una banda dello spettro elettromagnetico (quella X) poco esplorata in queste epoche cosmiche. Quindi siamo in un territorio completamente di frontiera che verrà pienamente esplorato soltanto tra un decennio con il lancio dei satelliti X di nuova generazione, più sensibili di Xmm-Newton. Anzi, i nostri risultati sul campione Hyperion saranno di grande aiuto per meglio pianificare la progettazione di questi satelliti e le future strategie di studio riguardanti i primi quasar e i primi buchi neri supermassicci. Questi primi risultati su questo campione di quasar ci fanno ben sperare di star seguendo la strada giusta per arrivare a una comprensione dei meccanismi di formazione dei primi buchi neri al centro delle galassie».
Fonte: Media INAF