Redshift 9.5: un nonnulla dopo il Big Bang, considerando che la sua luce ha viaggiato per più di 13 miliardi e mezzo di anni per giungere fin qui. Parliamo di una piccola e debole galassia che abita l’universo primordiale e la cui luce è stata rilevata grazie a una combinazione delle capacità ottiche del telescopio spaziale James Webb con quelle di un ammasso di galassie che si trova a circa 3.2 miliardi di anni luce dalla Terra. Qui un gruppo di ricercatori, guidato da Hayley Williams della University of Minnesota, aveva scoperto tre immagini di una supernova, ingrandita e moltiplicata proprio per l’effetto di lente gravitazionale generato dall’ammasso. Hanno però attirato la loro attenzione, oltre a queste, altre tre immagini deboli e puntiformi, disposte in un arco attorno al centro dell’ammasso. Sono le copie, create per effetto della lente, di una giovane galassia in formazione, impossibile da vedere se non con questa configurazione di strumenti, artificiali e naturali, unica.
«La cosa straordinaria è che si tratta una galassia molto poco luminosa, così debole che sarebbe stata inaccessibile senza Webb e la magnificazione dovuta al lensing», dice a Media Inaf Tommaso Treu, professore all’Università della California a Los Angeles (Ucla) e coautore dell’articolo che riporta la scoperta, pubblicato oggi su Science.
La galassia è stata osservata la prima volta con la camera NirCam, a bordo del telescopio spaziale Webb, il 6 ottobre 2022. Dalle immagini ottenute e da una serie di analisi preliminari, è stato subito chiaro che si trattava di una galassia particolare e lontanissima: dalla sola fotometria delle immagini il redshift calcolato risultava già superiore a 9, la massa abbastanza piccola e, in generale, la struttura molto compatta, dato che il raggio calcolato era di appena 16.2 parsec (poco più di 50 anni luce). Sembrava, inoltre, che stesse formando nuove stelle con un ritmo molto elevato. Per averne conferma, Webb l’ha osservata nuovamente 16 notti dopo, questa volta con lo spettrometro infrarosso NirSpec, che ha permesso di derivarne lo spettro e calcolare con precisione, dalle righe in emissione, la distanza e il tasso di formazione stellare.
«La galassia è molto più piccola delle galassie di simile luminosità ma più vicine a noi. Quindi è estremamente compatta e con un’alta densità di formazione stellare», spiega Treu. «Infine, l’abbondanza di ossigeno che abbiamo misurato dallo spettro è più bassa rispetto a quella che troviamo nelle galassie di simile luminosità a più basso redshift. Questo un po’ ce lo aspettavamo, dato che l’universo non contiene naturalmente ossigeno ma ne viene arricchito attraverso i processi di fusione nucleare all’interno delle stelle, che lo immettono nelle galassie e nel mezzo intergalattico. Per questo, andando così indietro nel tempo, è normale trovare una composizione chimica dell’ambiente galattico più semplice».
Le galassie antiche come quella identificata in questo studio sono nate in un’epoca cosmica alla quale gli astronomi hanno dato il nome di reionizzazione. Prima di questa, l’universo era pervaso da idrogeno neutro, formatosi dopo la ricombinazione, avvenuta in tempi molto precedenti, che aveva consentito la cattura degli elettroni da parte dei protoni. Grazie alla radiazione energetica emessa delle prime luci cosmiche, fra cui quella delle galassie, l’idrogeno è stato via via ionizzato nuovamente – da cui il nome del processo, reionizzazione. Sebbene il processo fisico che ha reso possibile questa transizione sia stato compreso, non è ancora chiaro chi abbia giocato il ruolo di attore protagonista.
«Prima di Webb non avevamo identificato le sorgenti della reionizzazione cosmica, perché tutte le galassie viste con Hubble non producevano abbastanza fotoni ultravioletti da ionizzare l’idrogeno primordiale. In questa galassia, invece, abbiamo trovato una buona candidata delle sorgenti che sospettavamo essere responsabili della reionizzazione ma che finora non potevamo vedere. La cosa più sorprendente è che sono piccole, compatte, e formano stelle molto efficientemente. Continueremo a cercarne altre», promette Treu, «questo è solo l’inizio».
Fonte: Media INAF