La sfida vide coinvolti in varie epoche, almeno tre famosi astronomi di cui abbiamo menzione: Johannes Hevelius (XVII sec.) con la sua “Lacerta sine Stellio”, Augustin Royer (XVII sec.) con la costellazione “Sceptrum et Manus Iustitiae” ed Johann Elert Bode (XVIII sec.) con la “Gloria Friderici”. Augustin Royer fu architetto ed astronomo reale nel XVII sec presso la corte di Luigi XIV, il re sole. Per rendere omaggio al suo sovrano, con la pubblicazione della sua opera “Cartes du Ciel”, datata 1679, introdusse due costellazioni, lo Scettro e Mano della Giustizia e poi il fiore del giglio, noto come Lilium in onore della Francia. L’opera, composta da quattro tavole astronomiche, riporta le coordinate astronomiche ricalcolate per l’anno 1700, andando quindi a correggere la precessione degli equinozi.
Johan Bode, vissuto a cavallo del XVIII-XIX secolo, fu un astronomo reso celebre, tra le altre cose dalla pubblicazione della legge di Titus-Bode che andava a ridefinire le dimensioni dei semiassi delle orbite planetarie del sistema solare. Direttore dell’osservatorio di Berlino dal 1786, pubblico diverse opere tra cui la sua opera magna, Uranographia la quale, oltre a rappresentare le costellazioni con una grafica eccezionale, presentava gli astri con una posizione estremamente precisa. In tale opera andò a collocare la costellazione della Gloria di Federico che non sostitutiva, bensì si affiancava alla costellazione inventata da Hevelius, al più sottraendogli un poco di spazio. Scopritore della Galassia di Bode nel 1774, successivamente inserita nel catalogo Messier nel 1781 come M81, l’astronomo mori a Berlino nel 1826 all’età di 79 anni. Come la storia ci racconta, solo poi uno di loro ebbe l’onore di essere riconosciuto dal IAU nella definizione delle 88 costellazioni moderne, Johannes Hevelius.
Una delle particolarità della lucertola, ed è il motivo per cui tale costellazione non era stata definita da popoli antichi, è quindi che privi di uno strumento ottico, quale un binocolo o telescopio, ammirando il cielo in condizioni normali, come il cielo delle nostre città si propone, risulta pressoché invisibile. Questa poca appariscenza, una costellazione invisibile, forse non ci sorprende perché non è l’unico caso, ma ci pone dinanzi ad un interrogativo importante e di non banale risposta, perché il cielo è Buio? Perché servono i telescopi? Alzando gli occhi al cielo, appare evidente che, al tramontar del sole al di là della linea dell’orizzonte, tutto pian piano diventa buio. Seppure il motivo possa sembrare scontato, ossia l’assenza della luce del sole, questo fenomeno ha tormentato nei secoli recenti gli studiosi del cielo.
Dopo che Isaac Newton, nel suo “Philosophie naturalis – Principia Mathematica”, divulgò la teoria della gravitazione universale nel ‘600, già sul finire del XVIII sec. era stato dimostrato che anche gli astri sono soggetti a tali forze di gravità. Molti studiosi hanno quindi iniziato a porsi il problema del perché, se le stelle sono un numero finito ed occupano una porzione di spazio finito, non sono attratte dalla gravità le une con le altre e perché questa attrazione non ha ancora portato le stelle a collassare le une sulle altre in un unico punto? Perché pur sapendo che subiscono le leggi della gravità, non sembrano risentirne?
La risposta a questa domanda poteva essere solo che le stelle non sono finite, bensì infinite ed occupano uno spazio infinito, così da annullare gli effetti gravitazionali e restare, almeno apparentemente, in equilibrio.
Questo assunto però apriva la strada ad un’altra domanda che, pur immaginandola posta da molti scienziati, sappiamo essere stata enunciata nel 1826, dall’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, come quello che aveva la forma di un mistero e che pertanto è noto come Paradosso di Olbers: “Se le stelle sono infinite tanto da impedire il collasso gravitazionale, come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?”. Considerando infatti di essere circondati da un numero potenzialmente infinito di stelle, di luminosità variabile e poste a distanza variabile, l’effetto finale (inquinamento luminoso permettendo) dovrebbe essere comunque quello di vedere stelle ovunque e quindi il cielo dovrebbe apparire della stessa luminosità della superficie del sole. Un po' come la luminosità della Via Lattea, solo che dovrebbe riempire tutta la volta del cielo.
Alcune teorie ipotizzavano la presenza di nubi oscure frapposte tra noi e gli astri più lontani, tanto oscure da impedire il passaggio della luce, ma in realtà tali nubi avrebbero dovuto a loro volta brillare a causa dell’elevato numero di corpi celesti. Pur essendosi a lungo interrogati su questo aspetto del cielo, la risposta arrivò solo in epoca recente, nel XIX secolo quando lo scrittore E.A. Poe, grande appassionato ed abile divulgatore di temi astronomici, propose durante una conferenza la sua idea: Guardando lontano vediamo le stelle via via sempre più giovani, così giovani che ad un certo punto le vediamo non ancora accese, lì vediamo il buio. Poe aveva infatti considerato che, essendo la velocità della luce finita, molto probabilmente, negli spazi bui stiamo sì osservando stelle, solo che sono così lontane che le vediamo non ancora formate.
Percepiamo quindi le nubi di materia dalla quale si sono formate, materia che ci impedisce di vedere attraverso e quindi l’effetto è di vedere il buio. Questa idea di Poe si affianca inoltre ad un’altra sua grande idea: l’universo è composto non da stelle singole, come si credeva fino ad allora, bensì da ammassi di ammassi di stelle. Queste idee vennero confermate solamente nel XX secolo, quando negli anni 20 del ‘900, a seguito anche di quello che passò alla storia come “Il grande dibattito”, gli scienziati cercarono le prove per dimostrare se effettivamente tutti gli oggetti celesti allora noti fossero parte di un unico ammasso, la Via Lattea, oppure ne fossero al di fuori. A risolvere la questione (come abbiamo avuto modo di vedere trattando della costellazione di Andromeda) fu l’astronomo statunitense Hubble che grazie ad un telescopio di 2,5 metri di apertura, riuscì a misurare delle stelle di tipo cefeide nella nube di Andromeda.
Ma perché il telescopio permette di vedere più stelle? Perché è servito un telescopio enorme (all’epoca il più grande del mondo) per capire che la nube di Andromeda è in realtà una galassia? La motivazione risiede nella capacità delle lenti di raccogliere la luce e di concentrarla in un punto, tanto maggiore il diametro della lente e tanto maggiore la capacità della lente di raccogliere onde luminose debolissime, così deboli che dal nostro occhio nudo non sono percepite.
Immaginiamo di dover decidere se sta piovendo, o meno. Allungando la mano magari ci capita di sentire qualche debole gocciolina rendendoci incerti nel definire se piove o meno. Immaginiamo ora di avere sopra la nostra mano un imbuto molto grande, la sua capacità di raccogliere le goccioline aumenta molto la nostra percezione della pioggia. Così anche il telescopio è in sintesi un imbuto per i fotoni, le onde luminose che attraversano il cielo e ci parlano del passato. Alzando gli occhi al cielo, ogni volta che ammiriamo anche ad occhio nudo le chiare stelle, stiamo facendo un tuffo nel passato, non solo tra oggetti stellari o del profondo cielo, bensì anche un tuffo nella storia della nostra specie, un tuffo nella storia dell’umanità.
di Fabrizio Benetton
Bibliografia:
Wikipedia – the free enciclopedia (Versione Italiana ed Inglese)
La volpe e la Lucertola, Mario Sandri
Immagini:
Wikipedia – the free enciclopedia
Atlascoelestis.com – di Felice Stoppa