L’immagine che vedete qui sotto è una rappresentazione della cosiddetta scala di Bortle, e mostra come cambia la visione del cielo a seconda del grado di inquinamento luminoso del luogo in cui vi trovate. Se vivete in città o nella prima periferia, vi sarete probabilmente accorti di quanto sia diventato difficile vedere le stelle di sera, o nel corso della notte: il cielo sopra le vostre teste somiglierà molto a uno dei primi due riquadri da sinistra. Se siete un po’ più fortunati, vi troverete forse in una condizione più simile al terzo. Solo una piccola parte di voi potrà dire di avere la fortuna di vedere, sopra la propria casa, un cielo come quello del quarto riquadro o oltre. I dati indicano, infatti, che oggi l’inquinamento luminoso impedisce a un terzo degli abitanti a livello globale di vedere la Via Lattea, e fra questi quasi l’80 per cento dei nordamericani e il 60 per cento degli europei; e che meno dell’1 per cento dei residenti in Nord America e in Europa gode di cieli notturni incontaminati.
Si tratta di un problema che riguarda l’intera società e che ha un impatto diretto su chi, con il cielo, ci lavora. Gli astronomi, ad esempio, che negli ultimi cinquant’anni sono passati da registrazioni a occhio nudo delle condizioni del cielo notturno – negli anni ’70 e ’80 – a veri e propri studi strumentali e sistematici del peggioramento dell’inquinamento luminoso nei siti di osservazione da terra. Il mese scorso, su The Astronomical Journal, è stato pubblicato uno studio condotto da astronomi che lavorano in osservatori cileni che valuta, con una copertura e una risoluzione senza precedenti, il grado di inquinamento luminoso in quattro siti della regione cilena di Coquimbo: il Parco Nazionale di Fray Jorge, una riserva stellare certificata; l’Osservatorio di Las Campanas, un osservatorio astronomico professionale in cima a una montagna nel deserto di Atacama; l’Osservatorio Astroturistico di Collowara, situato vicino a una città di 11mila abitanti; e La Serena, una città di 450mila abitanti. Il primo autore dello studio è Rodolfo Angeloni, astronomo classe 1979 originario di Amelia, una piccola cittadina umbra al confine con il Lazio e che, dopo il dottorato a Padova, ha seguito le stelle in Cile al Gemini Observatory.
«L’inquinamento luminoso sta avanzando molto più rapidamente (il 7-10 per cento all’anno) di quanto stessimo precedentemente immaginando», spiega a Media Inaf Angeloni. «Stanno aumentando rapidamente sia i livelli di intensità specifica che le aree illuminate. Un problema particolarmente insidioso poi è l’avanzata delle luci led, soprattutto di quelle bianco-azzurre che sono più inquinanti per vari motivi legati sia alla fisica di per sé (i.e., scattering) che all’impatto su svariati processi biologici, con pesanti influenze negative a livello ecologico e medioambientale, oltre che sociale, economico e culturale».
In particolare, nell’articolo si riporta che le misurazioni hanno confermato che il Parco nazionale Fray Jorge – già noto per essere uno dei luoghi più bui al mondo – rimane un sito di cielo buio eccezionale, con appena il 4 per cento della luminosità del cielo notturno proveniente da luci artificiali, e va pertanto preservato e protetto dall’inquinamento luminoso.
All’Osservatorio di Las Campanas, futura sede del Giant Magellan Telescope di 25 metri, invece, le luci artificiali hanno aggiunto circa un 11 per cento alla luminosità del cielo, con i maggiori contributi provenienti dalle città di La Serena e Vallenar, città che si trovano rispettivamente a 117 e 49 chilometri di distanza. Fortunatamente, l’impatto dell’inquinamento luminoso sull’osservatorio è ancora ridotto, ma la crescita delle città vicine e il progetto in corso dell’autostrada Panamericana potrebbero peggiorare la situazione. Infine, i cieli che circondano La Serena sono illuminati in modo preponderante da fonti artificiali e l’impatto delle luci della città è stato avvertito a grande distanza. La Serena, infatti, è risultata anche la maggiore fonte di luminosità artificiale del cielo negli altri tre siti monitorati. E pensare che solo negli anni ’80 dalla città era ancora visibile la Via Lattea.
Gli autori dello studio intendono proseguire gli sforzi nella regione monitorando continuamente la luminosità del cielo di La Serena e installando altri 40 sensori nei siti di cielo buio. Angeloni ci anticipa anche che sta lavorando a un nuovo studio in cui presenta l’evoluzione della brillanza e della cosiddetta spectral energy distribution – o Sed, ovvero la distribuzione di energia della luce a diverse lunghezze d’onda – del cielo notturno dal 2019 ad oggi nei principali osservatori professionali del Cile (Ctio, Gemini, La Silla, Paranal, Las Campanas, etc), attraverso dati che provengono da un monitoraggio che per alcuni di questi siti ha una risoluzione addirittura trimestrale. I risultati, purtroppo, non sembrano essere incoraggianti.
E se in Cile la situazione è piuttosto preoccupante, dal momento che il territorio ospita moltissimi telescopi internazionali ed europei, in Europa e in Italia il cielo versa in condizioni anche peggiori. In Europa sembra che i luoghi davvero scuri, i cosiddetti dark skies, si contino sulle dita di una mano. Lo scorso anno è stato pubblicato uno studio in cui ne veniva individuato uno nelle alpi austriache, dove si trova il Sölktäl Naturpark.
«In Italia non ci sono indicazioni quantitative precise e prolungate nel tempo, che io sappia: a parte pochi esempi virtuosi come quello dell’Arpav in Veneto, non ci sono network dedicati», racconta Angeloni, «anche se le cose si stanno un po’ muovendo, anche grazie agli astrofili». Nella riserva naturale del Monte Rufeno, al confine tra Umbria Lazio e Toscana, ad esempio, si trova un osservatorio amatoriale gestito dall’associazione Nuova Pegasus che da circa un anno sta monitorando la qualità del cielo notturno attraverso un fotometro: i dati sono disponibili pubblicamente.
E non è tutto. Le condizioni di osservabilità del cielo non dipendono solo dalla brillanza di questo – anche se in grande misura è così – ma devono tenere in considerazione anche il disturbo arrecato dal sempre crescente numero di satelliti artificiali in orbita attorno al nostro pianeta, che disturbano il puntamento dei telescopi lasciando, al loro passaggio, strisciate luminose nelle immagini. Ha davvero senso continuare a investire nell’astronomia da terra?
«Personalmente credo che abbia senso continuare a investire nell’astronomia da Terra, anche se le sfide sono molteplici», commenta Angeloni. «Forse la strategia vincente per almeno arginare il problema dell’inquinamento luminoso è, paradossalmente, non centrare il discorso sulla perdita del cielo stellato (come se fosse un problema della sola comunità scientifica astronomica) ma spiegare al grande pubblico che, in realtà: primo, l’inquinamento luminoso è un problema trasversale che ci riguarda tutti direttamente, a causa delle comprovate conseguenze economiche e di salute che un mal uso dell’illuminazione tanto pubblica come privata comporta; e che, secondo, nessuno vuole spegnere le città in una utopica “decrescita felice”: non parliamo necessariamente di illuminare meno, ma semplicemente di illuminare meglio. Sfatando anche alcuni miti urbani che vedrebbero il livello della sicurezza delle nostre strade direttamente legato al loro livello di illuminazione. Anche in questo caso, la chiave del discorso è illuminare meglio, ad esempio garantendo un’illuminazione uniforme e costante lungo una via, piuttosto che illuminare più intensamente – creando paradossalmente delle zone di ombra dove la sensazione di insicurezza cresce. È un discorso multifattoriale piuttosto complesso, che per essere compreso, affrontato, e combattuto ha bisogno della collaborazione di molti attori: agli scienziati il compito di fornire il punto quantitativo della situazione, per poter poi permettere ai decision makers di prendere decisioni “informate” basate su dati oggettivi e non su sensazioni distorte o, peggio ancora, tornaconti politici elettorali a breve termine».
Fonte: Media INAF