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I telescopi Inaf misurano il Sole nelle onde radio

Sono partiti letteralmente da zero nel 2018 con un’idea visionaria e, per l’epoca, un po’ stramba: osservare il Sole nelle onde radio con i radiotelescopi Inaf di Bologna e Cagliari. Parliamo del team di Sundish, il progetto osservativo dell’Inaf che, dopo il primo articolo pubblicato dal responsabile scientifico  Alberto Pellizzoni nel 2022, si arricchisce oggi di due nuove ricerche condotte da Marco Marongiu dell’Inaf di Cagliari, pubblicate il mese scorso in tandem sulla rivista Astronomy and Astrophysics.

Come mai questa curiosità per la misurazione del raggio solare? Non dovrebbe essere una stima già consolidata?

«La misura del raggio solare nasce in realtà da un nostro collega, anch’egli sardo, che lavora in Olanda, al telescopio Lofar, e che un giorno ci chiese “ma voi il Sole lo vedete tondo?”. All’inizio siamo rimasti un po’ stupiti, certo lo vediamo tondo, abbiamo risposto! In effetti a quella domanda c’è una motivazione importante: i telescopi a bassissime frequenze come Lofar vedono il Sole come una nebulosa informe che corrisponde all’atmosfera esterna, ovvero alla corona solare, piena di materia che, per quanto rarefatta, circonda la massa solare principale. Quindi loro il Sole lo vedono ellittico e misurano un semiasse maggiore e un semiasse minore. Da lì è nata la curiosità di fare un lavoro di misura del raggio del Sole a frequenze più alte (ovvero osservando onde radio più corte) e praticamente mai esplorate. Per farlo ci siamo avvalsi, e lo stiamo facendo tuttora integrandoli, di diversi metodi osservativi».

Quali?

«L’half-power method (in italiano, metodo di mezza potenza) calcola il raggio del Sole prendendo tutti quei punti sul disco solare che si trovano al 50 per cento della temperatura di “Sole quieto” a una determinata frequenza di osservazione, nel nostro caso tra 18 e 26 GHz. Questo valore varia in base alla frequenza e considera il Sole quieto come un modello teorico di Sole senza macchie e senza attività ulteriori rispetto alla pura radiazione termica, chiamata free–free. In pratica è un modello ideale molto vicino al Sole considerato nel suo minimo del ciclo undecennale. Il secondo metodo si chiama inflection-point (in italiano, metodo dei punti di flesso) e calcola il raggio “tagliando a fette” il Sole in orizzontale e/o in verticale e calcolando i punti di flesso (ossia quei punti in cui si manifesta un cambiamento di convessità o di segno di curvatura) nei tanti profili di temperatura ottenuti. Tutti questi punti, come nel caso precedente, vanno a comporre sul disco solare un “cerchioide” che noi andiamo a modellare secondo la classica equazione parametrica di un’ellisse. Questo metodo è più preciso rispetto a quello precedente, in quanto non considera le eccedenze, rispetto ai bordi al cerchio, dovute a brillamenti o regioni attive. Un terzo metodo, più complesso e più preciso, sfrutta il fatto che noi con le nostre mappe solari non vediamo il segnale del Sole “vero”, bensì il risultato della somma tra il segnale vero del Sole ed il beam pattern, ossia il sistema di ricezione del ricevitore che ne determina la risoluzione, un po’ come i bastoncelli della nostra retina o i pixel di una camera digitale. Abbiamo assunto come Sole vero due tipi di funzione empirica: un classico cilindro (come i cappelli a cilindro degli abiti), oppure un cilindro con l’aggiunta di una coda ai suoi estremi, per simulare l’emissione dell’atmosfera solare che abbiamo visto nelle nostre mappe. La simulazione delle code richiama la radiazione “sfumata” che la nostra stella mostra ai suoi bordi. Il Sole, in quanto gassoso, non ha infatti un orizzonte netto come nel caso di un corpo roccioso come la Terra».

Con quali telescopi lo avete osservato?

«A oggi abbiamo circa venti mappe solari eseguite con Srt, il Sardinia Radio Telescope di San Basilio (Cagliari), e ben 370 mappe solari fatte con il Medicina “Gavril Grueff” Radio Telescope, il radiotelescopio Inaf di Bologna, recentemente intitolato a uno dei padri degli strumenti più importanti della radioastronomia italiana, compreso Srt. Il nostro paper è probabilmente uno dei primi pubblicati che nomina questo strumento con il suo nuovo nome».

Siete riusciti quindi a misurare il raggio?

«La qualità delle nostre mappe è tale che riusciamo a misurare il raggio con un margine di errore molto piccolo. Su un raggio, alle frequenze radio, di circa 980 arcosecondi – che corrispondono nella realtà a circa 710mila km – l’errore varia tra uno e due arcosecondi. E poi abbiamo visto che, sempre dentro a margini di errore predefiniti, il Sole cambia forma e le misure equatoriali differiscono da quelle polari a seconda della fase del ciclo undecennale. Quando infatti il Sole è al massimo della sua attività (che per via delle protuberanze e irregolarità ci rende il lavoro un po’ più difficile) molte regioni attive vengono a formarsi nella zona equatoriale espandendo quel raggio rispetto a quello polare. Viceversa nel minimo solare il raggio polare aumenta le dimensioni e nel radio mostra brillamenti polari (polar brightening) là dove alle alte energie (Uva e raggi X) si vedono invece delle macchie, come dei buchi di attività. La differenza è comunque veramente minima: si parla di qualche arcosecondo».

Queste differenze tra il diametro solare durante i massimi e i minimi del ciclo undecennale erano già conosciute?

«Sì, erano conosciute ma, ad esempio, fino a cinquant’anni fa alcune stime avevano errori quantificabili in oltre un arcominuto, ovvero 60–100 arcosecondi. Nel tempo abbiamo acquisito un vantaggio notevole arrivando a errori di pochi arcosecondi. Inoltre, la distanza Terra–Sole durante l’anno varia tra afelio e perielio ed è consuetudine per tutta la comunità solare normalizzare il raggio solare calcolandolo sempre a un’unità astronomica, che è la distanza media. In tal modo, a seconda del momento in cui osserviamo, possiamo applicare questo correttivo e avere stime precise e condivise in tutta la comunità scientifica».

Il secondo dei vostri articoli è dedicato all’atmosfera solare. Perché l’avete studiata?

«L’atmosfera solare è un insieme di tre strati a cipolla composti da gas elettricamente carico chiamato plasma. La superficie solare, quella che vediamo ribollire con i telescopi ottici, è la fotosfera che raggiunge solamente circa 6000 °C ma i cui fotoni sono in grado di passare gli strati seguenti e di arrivare fino a noi sotto forma di calore e luce visibile. Segue poi la cromosfera, visibile durante le eclissi di sole (che, paragonata al nostro pianeta, sarebbe l’aria che inizia a livello del mare) e, infine la periferica e caldissima corona solare, che raggiunge il milione di gradi nonostante la densità di particelle sempre minore. Lo studio in radio dell’atmosfera solare è stata una conseguenza non prevista delle misure del raggio, per questo abbiamo deciso di farne una pubblicazione a parte».

E cosa avete scoperto, sull’atmosfera solare?

«Questi primi studi radioastronomici in banda K sono orientati a stabilire metodi e parallelismi con misurazioni precedenti e quello che abbiamo trovato è che, utilizzando il modello del Sole quieto, le informazioni su temperatura e densità che abbiamo registrato corrispondono a quelle effettuate in precedenza e in altre frequenze, ma solo partendo dalla fotosfera e fino ad una certa altezza dell’atmosfera solare che corrisponde più o meno a 1,2 – 1,4 raggi solari. Dopodiché questi valori si discostano, evidentemente perché non abbiamo considerato altre componenti come ad esempio gli effetti del campo magnetico e per questo occorrerà continuare ad osservare tenendo conto anche di altre variabili».

A proposito di valori che si discostano, un’ultima curiosità: il raggio che misurate voi è di circa 710mila km, ci ha detto prima, ma quello che trovo su Wikipedia è 696mila km, quasi il due per cento in meno. Qual è il motivo di questa incongruenza?

«Non ci sono incongruenze: il raggio canonico è stato deciso “a tavolino” ed è quello misurato con particolari tecniche nelle frequenze del visibile. Quando andiamo a frequenze più basse, e quindi nel radio, questo raggio diventa più grande. Il motivo a oggi non è ben chiaro, ma due possibili aspetti che possono influire su questa discrepanza sono sia la risoluzione più bassa delle nostre mappe nel radio rispetto alle alte frequenze (Uv, raggi X), che ci fanno vedere mappe più “sfocate” e non ci fanno apprezzare al meglio tutti i dettagli e la morfologia del Sole, sia il metodo di misurazione del raggio, e il fatto che per compiere tali misure bisogna anche assumere un modello che descriva il Sole in modo accurato anche da un punto di vista fisico, non solo da un punto di vista empirico».

 

Fonte: Media INAF

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