Di buchi neri primordiali (Phb, da primordial black holes), piccoli buchi neri risalenti ai primissimi istanti subito dopo il Big Bang, pare se ne siano formati relativamente pochi. È la conclusione alla quale è giunta una coppia di fisici del Kavli Institute for the Physics and Mathematics of the Universe (Kavli Ipmu) – in Giappone, all’Università di Tokyo – applicando allo studio dell’universo primordiale la teoria quantistica dei campi. Il risultato, pubblicato ieri su Physical Review Letters, potrebbe avere implicazioni anche per lo studio della materia oscura: una fra le ipotesi per spiegarne la natura è che sia fatta proprio da questi antichissimi buchi neri.
«Li chiamiamo buchi neri primordiali, e molti ricercatori li ritengono un forte candidato per la materia oscura», ricorda infatti il primo autore dello studio, Jason Kristiano, del Kavli Ipmu, «ma per soddisfare questa teoria ce ne dovrebbero essere in grande quantità». Ed è proprio su questo che interviene il nuovo studio: considerando i principali modelli inflazionistici e confrontandoli con i dati forniti dalle osservazioni della radiazione di fondo cosmico a microonde (Cmb), il team del Kavli Ipmu è infatti giunto a porre un limite superiore a un parametro dello spettro di potenza su piccola scala legato alla formazione di questi buchi neri primordiali. Una conclusione, sottolineano gli autori dello studio, che potrebbe essere sottoposta a verifica con le future osservazioni di onde gravitazionali – sia quelle dovute alla fusione di buchi neri stellari rivelate da interferometri come Ligo e Virgo, sia quelle di fondo, rilevabili attraverso sistemi come il pulsar timing array.
Ma abbondanti o rari che siano, come si sarebbero formati, questi buchi neri primordiali? «È opinione diffusa si creino dal collasso di onde di lunghezza molto piccola ma di ampiezza molto grande nell’universo primordiale», dice Kristiano. Insomma, è un po’ come se fossero le “particelle” delle fluttuazioni quantistiche presenti all’epoca dell’inflazione. Fluttuazioni che avrebbero lasciato traccia nella Cmb a larga scala.
«In principio l’universo era incredibilmente piccolo, molto più piccolo delle dimensioni di un singolo atomo. L’inflazione cosmica lo ha rapidamente espanso di 25 ordini di grandezza», spiega l’altro autore dello studio, Jun’ichi Yokoyama, direttore del Kavli Ipmu. «Le onde che all’epoca si propagavano attraverso quello spazio minuscolo potevano avere ampiezze relativamente grandi ma lunghezze d’onda molto piccole. Ciò che abbiamo scoperto è che queste onde minuscole ma intense possono tradursi in un’amplificazione altrimenti inspiegabile di onde molto più lunghe che osserviamo nell’attuale Cmb».
«La nostra ipotesi è che ciò sia dovuto a occasionali casi di coerenza tra queste prime onde corte, spiegabili facendo ricorso alla teoria quantistica dei campi, la teoria più robusta di cui disponiamo per descrivere fenomeni come i fotoni o gli elettroni. Mentre le singole onde corte sarebbero relativamente poco potenti, i gruppi coerenti avrebbero potenza sufficiente ad alterare onde molto più grandi. Si tratta di un raro caso», sottolinea Yokoyama riferendosi alla relazione fra il microcosmo della meccanica quantistica e il macrocosmo della cosmologia, «in cui una teoria su qualcosa a un estremo della scala sembra spiegare qualcos’altro all’estremo opposto della scala».
Se dunque, come suggeriscono Kristiano e Yokoyama, le fluttuazioni primordiali su piccola scala influenzano alcune delle fluttuazioni su scala maggiore che osserviamo oggi nella Cmb, dato che possiamo misurare queste ultime per vincolare efficacemente l’estensione delle corrispondenti lunghezze d’onda nell’universo primordiale, ciò vincola altresì qualsiasi altro fenomeno che potrebbe basarsi su queste lunghezze d’onda più corte e più forti, concludono i due fisici. È così che sono giunti a stabilire il limite superiore sui buchi neri primordiali, che del collasso di quelle onde sarebbero l’esito, e a concludere che siano in quantità assai inferiore a quella richiesta per rappresentare un valido candidato per la materia oscura.
Fonte: Media INAF