Riferimento imprescindibile per gli abitanti dell’emisfero boreale, dal navigatore antico che solcava i mari nelle tenebre al neofita che si cimenti con i rudimenti delle costellazioni, la Stella Polare è forse dopo il Sole l’astro più noto del firmamento. A onor del vero, non particolari meriti detiene la suddetta stella, se non quello di trovarsi nell’epoca attuale, per una mera coincidenza cosmica, a soli 0.7 gradi dal Polo nord celeste – proiezione del Polo nord terrestre sul firmamento. Circostanza che la rende, sola fra tutte, praticamente ferma e coincidente con il nord alla vista limitata degli umani, gemma incastonata nella sfera celeste, incurante della danza delle costellazioni che si avvicendano nel cielo notturno nel corso dell’anno. Dall’altra parte della Terra tale fortunata coincidenza non si è verificata, cosicché le genti dell’emisfero australe hanno dovuto utilizzare un’intera costellazione – la Croce del Sud – come surrogato per localizzare, con indubbia maggiore incertezza, il meridione.
Sommità della coda dell’Orsa Minore e stella più brillante di tale costellazione, avvalendoci di potenti telescopi, strabilianti dettagli che mai sospetteremmo si scoprono in questo astro noto da secoli. Intanto non è ferma, ma proprio per nulla, come ogni corpo celeste che popoli la nostra e ogni altra galassia dell’universo. Ed è pure in compagnia, ma non di chi penseremmo. Le stelle dell’Orsa Minore sono infatti solo apparenti vicine di casa, essendo astri che nulla hanno a che vedere fra di loro e che l’essere umano ha unito da linee e vicende leggendarie in maniera, dovremo ammettere, sfacciatamente arbitraria. Qui invece si parla proprio di stelle che qualcosa da condividere ce l’hanno davvero, prima fra tutte l’interazione gravitazionale che lega i destini dei corpi celesti coinvolti in orbite più e meno eccentriche. Non solitaria come il nostro Sole ma scortata da ben due stelle compagne si presenta la nota stella, più piccine in massa e luminosità e dunque celate alla nostra vista. Come se non bastasse, regolari pulsazioni scuotono quest’astro, con un periodo di circa quattro giorni, a seguito di una variazione periodica di dimensioni e temperatura. E adesso si scopre pure che non omogenea e liscia appare la sua superficie bensì coperta di macchie.
La scoperta è stata realizzata da un gruppo di ricercatori guidati da Nancy Evans dello Smithsonian Astrophysical Observatory di Cambridge, in Massachusetts. Il team ha utilizzato il Center for High Angular Resolution Astronomy (Chara) Array dell’Osservatorio di Monte Wilson, nei pressi di Pasadena, per compiere le osservazioni. I risultati sono usciti martedì su The Astrophysical Journal. Obiettivo dello studio: misurare accuratamente l’orbita della compagna più vicina alla Stella Polare, un flebilissimo astro che le orbita attorno con un periodo di circa trent’anni. Per fare ciò i ricercatori hanno monitorato il sistema stellare per cinque anni, dal 2016 al 2021. Lo studio del moto ha consentito di stimare la massa della Stella Polare. Grosso quanto cinque soli sarebbe questo astro, che rientra dunque a buon diritto tra le stelle dette supergiganti. La sua luminosità sarebbe maggiore di quella predetta dai modelli per la famiglia di stelle di cui fa parte, le cefeidi, astri bizzarri che mutano la loro parvenza con regolarità. Esiste una relazione che lega il periodo di pulsazione alla luminosità di una cefeide. In virtù di questa proprietà le cefeidi sono dei formidabili indicatori di distanza. Quanto ci appare brillante un astro – ovvero la sua magnitudine apparente – dipende infatti da quanto è intrinsecamente brillante e da quanto è lontano dalla Terra. Misurando la magnitudine apparente e il periodo di pulsazione – e dunque la luminosità – potremo quindi stimare la distanza della stella (per la Stella Polare siamo a circa 450 anni luce dalla Terra). Gli indicatori di distanza godono di un’importanza cruciale in astrofisica, in quanto dalla stima delle distanze si può ottenere niente meno che il tasso di espansione dell’universo.
Per la prima volta sono state acquisite delle immagini dirette della superficie della Stella Polare. Grande stupore ha colto gli astronomi di fronte all’aspetto maculato con cui si è presentato il (non più così) familiare astro. Chiazze chiare e chiazze ne ammantano infatti la superficie. Una stella a pois, insomma. Tali straordinari dettagli sono visibili grazie alla tecnica dell’interferometria che, combinando le osservazioni di diversi telescopi, consente di ottenere una sopraffina risoluzione angolare. Il Chara Array è infatti il più potente interferometro nell’ottico e vicino infrarosso, con la risoluzione angolare equivalente a quella che avrebbe un telescopio con uno specchio dal diametro di 330 metri. Le macchie e la rotazione della stella potrebbero avere un legame con la variazione della velocità radiale che si osserva su un tempo scala di circa quattro mesi. Diversi scenari sull’origine delle macchie sono stati proposti, che potrebbero avere a che fare con il campo magnetico della stella. In futuro gli astronomi proveranno a ottenere nuove immagini della Stella Polare, per meglio comprendere il meccanismo che genera le macchie.
Chissà se alla prossima scampagnata notturna, quando spiegheremo a qualcuno come raggiungere la Stella Polare a partire dalle ultime due stelle del Grande Carro, ci ricorderemo di questa vicenda. Probabilmente no. O forse sì. E allora oltre alla storia delle orse, ai tormenti della sciagurata Callisto, tramutata in orsa dalla gelosia di Artemide e collocata fra gli astri per riscatto assieme al figlio, al fatto che dobbiamo prolungare di cinque volte la distanza fra Merak e Dubhe per raggiungerla, e che tra tredicimila anni la Stella Polare sarà Vega e che dunque questa stella variabile dell’Orsa Minore avrà esaurito il suo millenario momento di gloria, a fianco a queste avremo un’altra meravigliosa storia da raccontare.
Fonte: Media INAF