Uno studio pubblicato su Science Advances, guidato dall’astronoma Tessa Vernstrom della University of Western Australia (Uwa), a cui hanno collaborato astrofisici dell’Università di Bologna e dell’Inaf di Bologna, mostra per la prima volta la presenza di segnali radio prodotti da colossali onde d’urto di masse di plasma nella rete cosmica. Si tratta delle prime tracce inequivocabili del magnetismo cosmico che viene generato alla periferia degli ammassi di galassie, le più grandi strutture dell’universo: un evento predetto da decenni nelle simulazioni numeriche, ma finora mai osservato in modo diretto.
«Queste onde d’urto accelerano elettroni relativistici, che spiraleggiando in un campo magnetico esterno irraggiano energia nella banda radio dello spettro elettromagnetico», spiega Franco Vazza, professore al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associato Inaf e autore delle simulazioni numeriche utilizzate nello studio. «Le nuove osservazioni rispecchiano molto da vicino le previsioni teoriche, e questo ci fa sperare di avere effettivamente rivelato per la prima volta il segnale del plasma magnetizzato, spazzato dalle onde d’urto della rete cosmica».
Osservando il cosmo alla scala più ampia possibile, la materia appare organizzata come un’intricata rete di filamenti e di aloni pieni di gas caldissimo e rarefatto (plasma), separati da giganteschi spazi vuoi estesi milioni di anni luce. Questa struttura “a tela di ragno” della rete cosmica era stata prevista già negli anni ’60 dai primi modelli numerici prodotti al computer, ed è stata poi confermata da una serie di osservazioni a partire dagli anni ’80. Nel corso degli ultimi anni, gli astronomi sono poi riusciti a mappare la ragnatela cosmica con osservazioni sempre più profonde e complete, che hanno prodotto nuove domande e misteri.
Tra questi interrogativi, uno dei più rilevanti riguarda l’evoluzione dei campi magnetici nella ragnatela cosmica e in particolare negli spazi apparentemente vuoti tra una galassia e l’altra. Esistono linee di campo magnetico in queste regioni “vuote”? E se esistono, come influiscono nell’evoluzione della rete cosmica? Sono domande a cui la comunità astrofisica mondiale sta cercando risposte da diversi decenni. Risposte che passano necessariamente all’osservazione, finora mai ottenuta in modo inequivocabile, dell’esistenza effettiva di questi campi magnetici nelle regioni più rarefatte dell’universo.
«I campi magnetici pervadono l’universo, dalla scala dei pianeti e delle stelle a quella dello spazio intergalattico: tuttavia, molti aspetti fondamentali del magnetismo su scale cosmologiche ci sfuggono», spiega Vernstrom. «Quando colossali masse di plasma vengono accelerate verso la rete cosmica, per effetto della gravità della materia già presente nella rete, si generano colossali onde d’urto che comprimono le linee di campo magnetico intergalattico. Quello che pensiamo di aver finalmente osservato per la prima volta è proprio il segnale di queste linee di campo magnetico compresse».
Questo risultato arriva dopo anni di studi e osservazioni. Già nel 2020, il gruppo di ricerca aveva ottenuto esiti promettenti sommando tra loro centinaia di migliaia di immagini, apparentemente vuote, dei campi intergalattici presenti tra coppie di galassie. Non era però ancora possibile escludere del tutto che questi segnali fossero generati da altri oggetti celesti. Gli esiti pubblicati ora su Science Advances superano anche gli ultimi dubbi e mostrano in modo inequivocabile la presenza di emissioni radio polarizzate provenienti dai filamenti della rete cosmica.
«Sono molto poche le sorgenti celesti in grado di produrre emissione radio polarizzata su scale cosmiche così grandi», conferma Christopher Riseley, astronomo del Dipartimento di fisica ed astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associato Inaf e coautore dello studio. «Le nuove osservazioni prodotte per questo studio, hanno preso in considerazione solo la parte polarizzata dell’emissione radio celeste e questo ha permesso di escludere altre possibili fonti di emissione».
Gli studiosi hanno utilizzato i dati e le mappe della Global Magneto-Ionic Medium Survey, l’archivio dei dati della missione Planck, l’interferometro radio Owens Valley Long Wavelength Array e il Murchison Widefield Array, uno dei radiotelescopi più potenti del pianeta (insieme all’europeo LoFar) e “precursore” dello Square Kilometre Array (il più colossale osservatorio astronomico mai concepito, la cui costruzione è da poco iniziata anche grazie alla collaborazione italiana, e la cui “prima luce” è prevista per il 2029).
Fonte: Media INAF