Spettacolo al quale tutti noi vorremmo assistere almeno una volta nella vita, le eclissi totali di Sole sono un’occasione imperdibile anche per gli scienziati, che le sfruttano come laboratorio per mettere alla prova modelli e teorie. Rimarrà per sempre nei libri di storia della scienza quella del 29 maggio 1919, che fornì la prima prova sperimentale della relatività generale. Ma anche quelle più recenti, sapendo quali domande porre, continuano a essere fonte di conoscenza. Alessandro Bemporad, fisico solare all’Inaf di Torino e responsabile scientifico del progetto Swelto (ben noto ai lettori di Media Inaf per l’appuntamento mensile con l’approfondimento video “Che Sole che fa”), la domanda l’aveva ben chiara in testa da tempo: in che misura è possibile sfruttare un’eclissi per derivare l’intensità dei campi magnetici della corona solare? L’occasione per rispondere si è presentata il 21 agosto 2017, con l’eclissi totale che ha attraversato dal Pacifico all’Atlantico gli Stati Uniti. E il risultato è stato pubblicato lo scorso marzo su The Astrophysical Journal, in un articolo ripreso recentemente anche dalla Aas, l’American Astronomical Society.
Bemporad, a quale conclusione è giunto? Sono ancora di qualche utilità, le eclissi, per la scienza?
«Sembra strano, ma le eclissi totali di Sole sono ancora oggi un evento imperdibile, non solo dal punto di vista divulgativo, ma anche dal punto di vista scientifico. Uno dei principali limiti alla nostra attuale comprensione della corona solare (e quindi alla soluzione di problemi fondamentali come il famoso riscaldamento coronale, l’accelerazione del vento solare, ma anche l’origine delle eruzioni solari) è la distribuzione dei campi magnetici. In pratica, è molto difficile misurare l’intensità dei campi magnetici nell’atmosfera del Sole, e per questo molte tecniche diverse sono state proposte in passato e testate proprio durante le eclissi totali di Sole. Tuttavia queste tecniche richiedono misure molto delicate, con tempi di esposizione molto lunghi, e funzionano al meglio solo nelle regioni coronali con campi magnetici molto intensi».
E invece? Cosa le ha svelato, l’eclissi del 2017?
«Dall’analisi delle immagini acquisite durante l’eclissi del 2017 sono riuscito a dimostrare che esiste una tecnica molto più semplice per determinare l’intensità dei campi magnetici coronali, che possono essere misurati ricorrendo all’assunzione che in tutta la corona l’energia magnetica e quella potenziale gravitazionale in sostanza si contro-bilancino l’una con l’altra. A quanto pare, nonostante questa assunzione possa sembrare piuttosto semplice e sia stata ottenuta in modo semi-empirico (giustificata teoricamente a posteriori nel mio articolo), nessuno l’aveva mai testata prima.
Sorprendentemente, i risultati ottenuti sono in ottimo accordo con le previsioni fornite da uno dei modelli numerici più avanzati attualmente esistenti di ricostruzione dei campi magnetici coronali (fornito dal gruppo Predictive Science), un modello estremamente complesso che richiede anzitutto la misura dei campi magnetici fotosferici, a partire dai quali, con varie assunzioni (ad esempio sul riscaldamento coronale ed il vento solare), i campi coronali vengono ricostruiti numericamente risolvendo un sistema di equazioni magneto-idrodinamiche in 3D dipendenti dal tempo fino al raggiungimento di uno stato stazionario. Data invece la relativa semplicità della ricostruzione dei campi magnetici coronali che ho ottenuto, questo risultato osservativo apre le porte a nuove ricerche sul magnetismo della corona solare a scale temporali che possono andare dal giorno fino all’intero ciclo solare».
Dal punto di vista osservativo come ha proceduto? Quali dati ha acquisito, da dove e con quali strumenti?
«Le immagini sono state acquisite con una normale macchina fotografica reflex (Canon Eos 1100D), dotata del comune zoom EF 75-300 mm e montata su un treppiede senza inseguimento. Lo zoom è stato poi dotato di un filtro polarizzatore lineare Hoya 58 mm acquistato su internet con meno di 25 euro, per le immagini polarizzate. Fondamentali sono state – più dell’attrezzatura piuttosto elementare – la pianificazione e preparazione prima dell’eclissi della sequenza di scatti da effettuare con diversi tempi di esposizione per coprire l’enorme intervallo dinamico di luminosità della corona solare e diverse orientazioni del polarizzatore nel breve intervallo di tempo di durata della totalità (2 minuti e 40 secondi), e poi l’analisi delle immagini realizzata al computer a valle delle osservazioni, che è stata piuttosto complessa e mi ha richiesto diversi mesi di lavoro. Per ogni sequenza sono stati utilizzati in particolare 15 diversi tempi di esposizione da 1/4000 di secondo per la corona più interna fino a 4 secondi per la corona più estesa, e come nella famosa eclissi del 1919 anche qui le stelle hanno svolto un ruolo molto importante nell’analisi, dato che hanno permesso il coallineamento delle diverse immagini non avendo una montatura dotata di inseguimento».
Era andato di persona negli Usa?
«Sono andato di persona, un’eclissi di sole in un luogo facilmente raggiungibile come gli Stati Uniti era un evento imperdibile: l’eclissi del 21 agosto 2017 ha attraversato letteralmente tutti gli Stati Uniti dalla costa ovest fino alla costa est, quindi non era difficile trovare una buona posizione. Tuttavia, dall’altro lato, dato che la fascia di totalità era facilmente raggiungibile, era anche necessario fare attenzione in modo da scegliere un luogo relativamente tranquillo per osservare un evento che, come si può immaginare, ha mobilitato una parte importante della popolazione americana. Le osservazioni che ho analizzato sono state acquisite in particolare da una postazione a nord di Idaho Falls e a ovest della città di Rexburg, lungo la statale 33, un sito che abbiamo individuato con i miei colleghi e compagni di viaggio Carlo Benna e Lucia Abbo, che ringrazio ancora una volta per l’aiuto nella scelta di questa postazione, che si è rivelata semplicemente perfetta».
Anche per l’eclissi del 2024 conta di essere sul posto? Con quali obiettivi, questa volta?
«Devo ancora organizzare viaggio ed osservazioni, ma sto pensando di non lasciarmi sfuggire questa seconda opportunità. In questo secondo caso vorrei ripetere le stesse osservazioni già acquisite in passato per confermare i risultati ottenuti, e dotarmi anche di una seconda macchina con un diverso zoom per studiare fenomeni della corona solare a più piccola scala. Allo scopo penso di utilizzare le immagini già acquisite per fare dei test in modo da minimizzare il numero di scatti con diversi tempi di esposizione, in modo da ridurre il più possibile la durata totale della sequenza osservativa. Spero di riuscire a ripetere l’esperienza del 2017, ma ci vuole anche un po’ di fortuna perché molte cose devono andare bene, a partire prima di tutti ovviamente dalle condizioni meteo!».
Fonte: Media INAF