Sono gli oggetti oscuri per definizione, i buchi neri, dunque non c’è da stupirsi se ogni tanto vengono ipotizzati scenari che li collegano alle altre due entità oscure per antonomasia – la materia oscura e l’energia oscura. Sulla possibilità che i buchi neri siano “fatti” di materia oscura, o che la materia oscura sia “fatta“ di buchi neri, si sta indagando da parecchi anni, e di recente anche due astrofisici italiani – Maria Felicia De Laurentis dell’Università di Napoli e Paolo Salucci della Sissa – hanno proposto un metodo per stimare quanta materia oscura possa esserci “dentro” a un buco nero supermassiccio. Arriva invece dall’Università delle Hawaii, in due articoli pubblicati nei giorni scorsi su ApJ e ApJL, uno studio che prova a stabilire un legame fra buchi neri ed energia oscura. Più che un legame, un’identità: se gli autori dello studio ci hanno visto giusto, i buchi neri sarebbero l’energia oscura.
Il meccanismo alla basa dell’ipotesi del team guidato da Duncan Farrah e Kevin Croker, entrambi astrofisici all’Università delle Hawaii, è il cosiddetto “accoppiamento cosmologico” (cosmological coupling, in inglese): un fenomeno, previsto in base alla teoria della gravità di Einstein, che riguarderebbe i buchi neri presenti in un universo in evoluzione: la loro crescita nel tempo sarebbe legata alla stessa espansione dell’universo. Ma come? «Proviamo a fare un’analogia con un giocattolo. Possiamo immaginarci un buco nero “accoppiato” come se fosse un elastico, che si allunga insieme all’universo man mano che questo si espande», spiega Croker. «Più l’elastico si allunga, più la sua energia aumenta. E poiché l’E = mc2 di Einstein ci dice che massa ed energia sono proporzionali, all’aumentare dell’energia aumenta anche la massa del buco nero». In altre parole, la massa di questi buchi neri coupled aumenterebbe nel corso del tempo non tanto – o non solo – perché ingurgitano materia, ma perché l’universo si espande.
Per mettere alla prova questo scenario, occorre anzitutto verificare se davvero con il passare del tempo la massa dei buchi neri aumenta indipendentemente da quanto “mangiano”. Ed è proprio ciò che gli autori provano a dimostrare nel primo dei loro due articoli, osservando come la massa dei buchi neri del loro campione in effetti aumenti, nel corso di miliardi di anni, in un modo che non può essere spiegato soltanto attraverso i “classici” processi in azione nelle galassie e nei buchi neri, come le fusioni o l’accrescimento di gas. Ora, seguire la crescita d’un campione di buchi neri nel tempo è un’impresa impossibile: servirebbe infatti uno “studio longitudinale”, ma su tempi scala di miliardi di anni. Gli astrofisici hanno dunque fatto ricorso a un escamotage: hanno compiuto uno “studio trasversale” su una popolazione con buchi neri d’età differenti, ipotizzando che seguano tutti un processo evolutivo analogo. È un po’ come se, per studiare la crescita d’un essere umano nel corso della vita, invece di scattare a un unico individuo una foto all’anno per ottant’anni mettessimo insieme ottanta foto, scattate lo stesso giorno, a ottanta persone con età da zero a ottant’anni. Non è esattamente la stessa cosa, d’accordo. D’altronde, non avendo miliardi di anni a disposizone, non si può fare altrimenti. E se il campione è ampio e omogeneo – nel caso di questo studio, era costituito dai buchi neri supermassicci di grandi galassie ellittiche in evoluzione “passiva” – il risultato dovrebbe essere significativo. Ebbene, ciò che i dati raccolti suggeriscono è che i buchi neri siano da 7 a 20 volte più grandi oggi rispetto a 9 miliardi di anni fa. Quanto basta per avvalorare il sospetto dei ricercatori: il colpevole di questa crescita potrebbe essere proprio il coupling cosmologico.
È però l’unico colpevole? Detto altrimenti, è sufficiente il solo coupling per spiegare la crescita osservata? È la domanda alla quale prova a rispondere il secondo studio stimando di quanto la crescita può essere addebitata al coupling. Ed è una stima che dipende dalla forza di accoppiamento, una variabile che i ricercatori indicano con la lettera k. «Più rigido è l’elastico», continua Croker riprendendo l’analogia precedente, «più è difficile allungarlo. Dunque più è allungato e maggiore è l’energia».
Detto altrimenti, poiché la crescita di massa dei buchi neri dovuta all’accoppiamento cosmologico dipende dalle dimensioni dell’universo, e l’universo in passato era più piccolo, i buchi neri di nove miliardi di anni fa osservati primo studio – affinché la loro crescita sia imputabile al coupling – devono risultare, rispetto a quelli più “anziani”, meno massicci di una quantità ben precisa. Esaminando cinque popolazioni di buchi neri presenti in tre diverse raccolte di galassie ellittiche, scelte fra quelle risalenti a quando l’universo era circa la metà e un terzo delle sue dimensioni attuali, Farrah e colleghi sono riusciti a misurare il valore di k, ovvero della forza del coupling: il risultato è circa 3. Esattamente il valore già previsto in uno studio del 2019 dagli stessi autori nel caso in cui i buchi neri non “contengano” una singolarità bensì energia. In particolare, l’energia del vuoto.
La conclusione, secondo gli autori, avrebbe implicazioni profonde, perché, stando a un loro studio precedente, se k vale 3, allora il contributo di tutti i buchi neri nell’universo messi assieme corrisponderebbe a una densità di energia oscura quasi costante, proprio come suggeriscono le misurazioni dell’energia oscura. È una conclusione da prendere per quel che vale: un’ipotesi tutta da verificare. E un primo test potrebbe arrivare dagli attuali esperimenti per la misura dell’energia oscura, come Desi (il Dark Energy Spectroscopic Instrument) e la Dark Energy Survey.
Fonte: Media INAF