Dire che siamo “figli delle stelle” non è solo il titolo di una famosa canzone degli anni ’70, né tanto meno un modo di dire, ma un dato ormai confermato dalla comunità scientifica. Quando una stella giunge alla fine del suo ciclo vitale può esplodere in supernova diffondendo nello spazio tutti quegli elementi chimici che sono stati sintetizzati all’interno del suo nucleo durante le diverse fasi evolutive. Questi “resti stellari” viaggiano lontano, attraverso il mezzo interstellare, e a volte dopo milioni di anni possono raggiungere e depositarsi su un pianeta. La spiegazione è presto data, o forse no. Gli elementi più pesanti, infatti, non sono sintetizzati solo nelle supernove: alcuni provengono dall’esplosione di nane bianche, per esempio, e altri dalla fusione di stelle di neutroni. Qualche volta però vengono trovati sulla Terra in depositi adiacenti. Com’è possibile?
Una nuova ricerca pubblicata su The Astrophysical Journal e condotta da scienziati della University of Hertfordshire (Regno Unito) e del Konkoly Observatory, Research Center for Astronomy and Earth Sciences (Ungheria), sembra aver svelato l’arcano. Per simulare il viaggio degli elementi chimici attraverso lo spazio interstellare, gli autori hanno utilizzato sofisticati modelli computerizzati osservando come elementi pesanti di diversa provenienza – compresi quelli prodotti dalla fusione di stelle di neutroni – riescono a “surfare” sulle onde d’urto di altre supernove attraverso la nostra galassia e poi giù sulla Terra.
La questione era stata sollevata già nel 2021 con la scoperta di isotopi radioattivi stratificati insieme sul fondo marino del nostro pianeta – isotopi che si ritiene non abbiano avuto origine nel Sistema solare ma da esplosioni stellari in altre parti della nostra galassia. In particolare, il nuovo studio prende in esame il manganese-53, associato alle esplosioni di nane bianche, il ferro-60, prodotto nelle supernove in cui il nucleo collassa, e il plutonio-244, che si pensa possa essere prodotto solo dalla fusione di due stelle di neutroni. Per raggiungere la Terra, questi isotopi sarebbero piovuti dal cielo durante gli ultimi due milioni di anni di vita del nostro pianeta. Poiché i sedimenti marini profondi si accumulano strato dopo strato nel tempo fino a formare le rocce, i ricercatori sono rimasti molto colpiti nel trovare questi tre isotopi, originati da diversi tipi di esplosioni stellari, in strati rocciosi a profondità simili. Questo può voler dire solo una cosa: devono essere arrivati sulla Terra insieme, anche se i loro siti di origine sono molto diversi.
«I nostri colleghi hanno estratto campioni di roccia dal fondo dell’oceano», spiega Benjamin Wehmeyer, primo autore dell’articolo, «li hanno dissolti, li hanno messi in un acceleratore e hanno esaminato i cambiamenti nella loro composizione strato per strato. Usando i nostri modelli computerizzati, siamo stati in grado di interpretare i loro dati per ricostruire come si muovono esattamente gli atomi nella galassia».
Dallo studio è emerso che il materiale espulso durante i diversi fenomeni astrofisici, e proveniente dunque da diversi siti galattici, viene trasportato in giro per la Via Lattea dalle onde d’urto delle supernove di tipo II, che risultano essere molto più comuni delle esplosioni innescate dalla fusione di due stelle di neutroni o delle esplosioni di nane bianche. Ciò significa che gli isotopi prodotti in siti molto diversi possono ritrovarsi a viaggiare insieme attraverso la galassia fino ad arrivare sulla Terra.
I risultati di questa nuova ricerca aiuteranno gli scienziati a comprendere meglio sia la composizione chimica del Sistema solare che del nostro pianeta. E potrebbero anche aiutarci a scoprire quali esopianeti abbiano maggiori probabilità di contenere la vita. «È un passo avanti molto importante, poiché non solo ci mostra come gli isotopi si propagano attraverso la nostra galassia, ma anche come questi diventino abbondanti sugli esopianeti», conclude Wehmeyer. «Tutto questo è di grande interesse, perché le abbondanze isotopiche sono un fattore importante nel determinare se un esopianeta è in grado di trattenere acqua liquida, che è la chiave per la vita. In futuro, questo potrebbe aiutare a identificare regioni nella nostra galassia nelle quali potremmo trovare esopianeti abitabili».
Fonte: Media INAF