Secondo i cosmologi la materia “convenzionale”, quella cioè che possiamo vedere e toccare, costituisce solo il 20 per cento della materia totale dell’universo. Il resto è costituito da materia oscura, una forma ipotetica di materia invisibile che si pensa pervada l’universo ed eserciti una forza gravitazionale abbastanza grande da influenzare il moto di stelle e galassie. Sebbene l’esistenza di questa materia sia largamente accettata dalla comunità scientifica, a oggi sulla sua identità non ci sono certezze, ma solo ipotesi.
La maggior parte di queste ipotesi prevede che la materia oscura sia fatta di particelle elementari sconosciute: alcune sostengono sia composta da particelle massicce debolmente interagenti (Wimp); altre da assioni; altre ancora da particelle che interagiscono sulla scala di Planck (Pidm) o da neutrini sterili.
Un’ipotesi alternativa alle precedenti, formulata per la prima volta negli anni ’70, è quella che prevede che la materia oscura non sia fatta di particelle esotiche, ma abbia le sembianze di buchi neri. Non buchi neri astrofisici, però – quelli che si formano dal collasso di vecchie stelle, per intenderci – ma buchi neri microscopici, piccoli quanto un atomo e pesanti quanto un grande asteroide, formatisi dal collasso di dense sacche di gas nell’universo primordiale. Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review D, questa ipotesi potrebbe essere “facilmente” verificata monitorando l’orbita di Marte con gli strumenti ad alta precisione di cui già disponiamo.
La ricerca in questione, condotta da un team di scienziati guidati dal Massachusetts Institute of Technology, si basa sull’assunto che se la maggior parte della materia oscura nell’universo è composta davvero da buchi neri primordiali (primordial black holes, Pbh, in inglese), su scale temporali relativamente brevi questi corpi dovrebbero attraversare il nostro Sistema solare e produrre un qualche effetto sui corpi che vi risiedono.
Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno condotto delle simulazioni. Basandosi sulla quantità di materia oscura che si stima sia presente in una data regione dello spazio e ipotizzando una massa del buco nero primordiale pari a quella del più grande degli asteroidi del Sistema solare, inizialmente hanno calcolato con quale probabilità un simile oggetto potrebbe attraversare il nostro vicinato cosmico e con quale velocità.
«I buchi neri primordiali non vivono nel Sistema solare. Piuttosto, scorrazzano nell’universo», sottolinea Sarah Geller, ricercatrice al Massachusetts Institute of Technology e co-autrice dello studio. «La probabilità che attraversino il Sistema solare interno a una certa angolazione è di una volta ogni dieci anni circa».
A questo punto, utilizzando un codice che incorporava dati sulle orbite e le interazioni gravitazionali tra tutti i pianeti e alcune delle più grandi lune del Sistema solare, i ricercatori hanno simulato cosa accadeva al sistema al passaggio di vari buchi neri di massa asteroidale da varie angolazioni, concentrandosi in particolare su quei sorvoli che sembravano essere “incontri ravvicinati”.
«Le simulazioni più avanzate del Sistema solare includono più di un milione di oggetti, ognuno dei quali ha un piccolo effetto residuo», dice a questo proposito un altro dei co-autori dello studio, il fisico, anch’esso del Mit, Benjamin Lehmann. «Ma anche modellando due dozzine di oggetti in una accurata simulazione, abbiamo potuto vedere che c’era un effetto reale che potevamo approfondire».
I risultati delle simulazioni hanno mostrato che nessun effetto sulla Terra e sulla Luna era abbastanza certo da essere attribuito a un particolare buco nero. Le cose cambiavano per Marte, che ha offerto il quadro più chiaro: le simulazioni hanno mostrato un’evidente deviazione nell’orbita del pianeta.
Se un buco nero primordiale dovesse passare a poche centinaia di milioni di chilometri da Marte, la sua orbita dovrebbe spostarsi di circa un metro, spiegano i ricercatori. È una variazione incredibilmente piccola se si considera che il pianeta si trova a circa 228 milioni di chilometri dalla Terra, ma comunque rilevabile dai vari strumenti ad alta precisione che monitorano oggi Marte.
Se un’oscillazione del genere venisse rilevata nei prossimi due decenni, aggiungono gli scienziati, ci sarebbe ancora molto lavoro da fare per confermare che la spinta provenga da un buco nero primordiale di passaggio. Per facilitare questo compito, i ricercatori stanno già valutando la possibilità di una nuova collaborazione con un gruppo di ricerca che vanta una luna lunga esperienza nelle simulazioni del Sistema solare.
«Stiamo lavorando per simulare un numero enorme di oggetti, dai pianeti alle lune fino alle rocce, e come questi si muovono su scale temporali lunghe», dice Geller. «Vogliamo simulare scenari di incontro ravvicinato e osservare i loro effetti con maggiore precisione».
«Grazie a decenni di telemetria di precisione, gli scienziati conoscono la distanza tra la Terra e Marte con una precisione di circa dieci centimetri», ricorda David Kaiser, professore di fisica al Mit, anche lui tra i firmatari dello studio. «Stiamo sfruttando questa regione dello spazio popolata da numerosi strumenti scientifici per cercare di individuare un piccolo effetto. Se lo vedessimo», conclude lo scienziato, «ciò sarebbe una buona ragione per continuare a perseguire quest’idea che tutta la materia oscura sia composta da buchi neri prodotti meno di un secondo dopo il Big Bang, che hanno circolato nell’universo per 14 miliardi di anni».
Fonte: Media INAF